Itinerario Mostra Simone Cantarini
Questo itinerario è dedicato alla mostra monografica dedicata a Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) ospitata dal 22 maggio al 12 ottobre 2025 presso gli spazi di Palazzo Ducale ad Urbino
Museo: Galleria Nazionale delle Marche
1. Introduzione - Incontrare Simone Cantarini: Antefatti Rovereschi e Felsinei
Inquieto e geniale pittore, raffinato acquafortista, appassionato disegnatore e poeta, Simone Cantarini nacque a Pesaro nel 1612, in un momento di transizione e di contrasti, nello stesso anno in cui moriva Federico Barocci. Nel 1631, la scomparsa senza eredi del duca Francesco Maria II Della Rovere aveva segnato la fine dell’indipendenza di Urbino. Al posto del ducato, durante il pontificato di Urbano VIII, veniva istituita una legazione dipendente in tutto dalla Santa Sede: il prospero Stato fondato all’inizio del Rinascimento diventava così una provincia di Roma. A questo periodo risalgono le tre effigi dedicate da Cantarini al cardinale Antonio Barberini, nipote del papa, qui riunite per la prima volta. Il volto magnetico del legato apostolico si staglia sulla preparazione scura del fondo con i baffetti alla moschettiera e lo sguardo rivolto verso di noi. Il colletto e la veste sono appena accennati, pennellate veloci e vibranti definiscono sommariamente i volumi dell’abito, come se il pittore avesse concentrato la sua attenzione nel fissare la fisionomia e l’espressione del suo illustre modello, lasciando il resto appena abbozzato. Nello stesso modo Cantarini fissava la propria immagine nel vivido autoritratto della Galleria Corsini, restaurato per l’occasione. In quel frangente, l’artista faceva la spola tra Pesaro, Venezia e Roma, cercando nuovi stimoli a Bologna, dove si sarebbe distinto, già verso il 1631-1632, come il più promettente e indisciplinato allievo di Guido Reni. Infatti, lasciò poca traccia in lui l’alunnato presso il manierista pesarese Giovan Giacomo Pandolfi, elegante disegnatore, mentre più proficuo dovette essere l’apprendistato nella bottega di Claudio Ridolfi, soprattutto per quanto concerne il genere del ritratto, nel quale Simone divenne un campione. A Pesaro, a Fano e nei dintorni di Urbino il giovane Cantarini si formava sulle pale di Guido e, parallelamente, sul caravaggismo filtrato di Giovanni Francesco Guerrieri, nonché sulle diverse declinazioni naturalistiche offerte dalle presenze forestiere sul territorio. Già allora, «prima d’entrar nella scuola» – a detta del suo primo biografo Carlo Cesare Malvasia – Cantarini poteva sentirsi un «maestro».
1.1. Partenza di Federico Ubaldo Della Rovere per Firenze; Allegoria dell’Allegrezza delle nozze e Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I
Claudio Ridolfi (Verona, 1570 - Corinaldo, 1644) Girolamo Cialdieri (Urbino, 1593 - 1680) e aiuti a. Partenza di Federico Ubaldo Della Rovere per Firenze 1621. Olio su tela Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, inv. D 365 b. Allegoria dell’Allegrezza delle nozze 1621. Olio su tela Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, inv. D 358 c. Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I 1621. Olio su tela Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, inv. D 354
Le tre tele, selezionate tra le diciassette pervenuteci, facevano parte dell’allestimento effimero innalzato a Urbino il 28 maggio 1621 per festeggiare le nozze di Federico Ubaldo, figlio dell’ultimo duca Francesco Maria II Della Rovere, e di Claudia de’ Medici, sorella di Cosimo II. Tale unione era frutto di un’oculata politica dinastica volta a ottenere un erede maschio per il ducato. Dopo la cerimonia, celebrata a Firenze il 29 aprile, i due sposi intrapresero il viaggio verso Pesaro, sostando in alcuni importanti centri del ducato, dove furono accolti con altri apparati celebrativi. In Urbino, l’apparato principale era stato allestito a Pian di Mercato ed era formato da due archi trionfali a doppia facciata raccordati da cortine e colonne, istallati uno di fronte all’altro all’inizio dell’attuale via Raffaello e della strada che porta a palazzo Ducale. Le costruzioni erano decorate in origine da venti tele, raffiguranti allegorie ed episodi tratti dalla storia antica e recente dipinti dal veronese Claudio Ridolfi e dal suo allievo urbinate Girolamo Cialdieri. I monocromi simulano bassorilievi in materiali preziosi, con uno stile talmente omogeneo da rendere difficile una distinzione tra le varie mani. Di tutto l’insieme dei venti monocromi, otto tele erano dedicate alle Storie delle duchesse di Urbino, mentre le rimanenti quattro celebravano la vestale Claudia, per onorare le virtù della nuova duchessa di Urbino. Tali pannelli ornavano uno dei due archi di Pian di Mercato, mentre le storie della vestale Claudia erano disposte sull’arco verso via Raffaello. Insieme alle allegorie femminili formavano un insieme unitario, finalizzato a sottolineare la virtuosa nobiltà del casato Montefeltro-Della Rovere. Il dipinto con la Partenza di Federico Ubaldo per Firenze, l’ultimo dei riquadri relativi al ciclo delle duchesse, raffigura il momento in cui il giovane, ritratto a cavallo come un imperatore antico, si muove con il suo seguito alla volta della capitale del granducato. La resa dello sfondo boscoso e del cielo mostra un’attenzione al dato atmosferico, caro alla pittura veneta. L’episodio è impostato in scorcio in modo da rendere dinamica la scena – come indica anche l’introduzione del personaggio tagliato dal bordo a destra – anche se la mancanza di caratterizzazione dei personaggi e alcuni difetti nella resa anatomica lasciano propendere per un’attribuzione della scena a Cialdieri. Unico dettaglio curioso è il personaggio alle spalle di Federico Ubaldo, che ha «li ociali», recentemente identificato con Vespasiano Caracciolo, precettore del giovane duca. L’Allegoria dell’Allegrezza delle nozze è stata identificata nella fanciulla che regge una viola e un archetto. L’Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I è rappresentata dalla statua con «una facella» in mano. Gli attributi, a eccezione del libro, trovavano un preciso riferimento nella descrizione della Vigilanza fatta da Cesare Ripa. Rispetto all’allegoria precedente di sicura paternità ridolfiana, i tratti di questa figura sono spigolosi, la posa è meccanica e caratterizzata da un brusco dinamismo. La volumetria del corpo è rigida e i panneggi sono pesanti; il moto della donna, che poggia la gamba destra su uno scalino, sembra un «semplice scatto meccanico privo grazia». Tali caratteristiche inducono a far pensare a un Cialdieri alle prime armi.
1.2. Ritratto di Felice Cioli
Il Ritratto di Felice Cioli, realizzato da Claudio Ridolfi nel 1602, rappresenta una delle opere più significative della sua produzione durante il soggiorno a Urbino, ed è oggi conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche (inv. D 117). Ridolfi, pittore originario di Verona (1570 – 1644), è qui autore di un dipinto che viene considerato il più bello tra i ritratti appartenenti alla collezione urbinate della famiglia Viviani. L’opera, eseguita a olio su tela, reca sul retro un’iscrizione che documenta chiaramente l’identità del soggetto ritratto e la data di esecuzione: «Questo ritratto è di Don Felice Cioli et fu fatto dal Ms. Claudio Ridolfo veronese A dì ultimo del mese di giugno 1602 nella etta sua di anni XXX». Questa nota manoscritta attribuisce senza dubbio l’opera a Ridolfi e fornisce preziose informazioni anche sull’età del personaggio raffigurato, ovvero trent’anni. Il dipinto rappresenta la seconda testimonianza pittorica certa dell’artista durante il suo periodo urbinate e mostra chiaramente l’influenza dello stile baroccesco, in particolare per l’attenzione riservata alla caratterizzazione psicologica del soggetto. La raffigurazione di Don Felice Cioli si distingue infatti per la sensibilità con cui l’artista riesce a restituirne non solo i tratti somatici, ma anche una profonda introspezione emotiva, ponendosi come esempio particolarmente rilevante per i pittori successivi, tra cui il giovane Simone Cantarini. Questo ritratto costituisce dunque un documento artistico e storico di grande valore, capace di testimoniare lo stile maturo e raffinato di Claudio Ridolfi in una delle sue fasi più ispirate.
1.3. Ritratto di Guido Reni
Il Ritratto di Guido Reni, conservato presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna (inv. 340) e attribuito tradizionalmente a Simone Cantarini, è un’opera realizzata intorno al 1637, in un momento cruciale della carriera del pittore pesarese. L’opera raffigura Guido Reni, uno dei massimi protagonisti della pittura seicentesca italiana, ritratto non nella sua veste ufficiale di maestro celebrato, ma in un momento di intimità e raccoglimento, lontano dalla grandiosità delle pose istituzionali. Lo sguardo malinconico, il volto segnato dal tempo e un accenno di fragilità psicologica e fisica conferiscono al dipinto una straordinaria umanità. È il ritratto di un uomo, prima ancora che di un artista, colto in un’età matura in cui il successo pubblico convive con riflessioni più personali e crepuscolari. Questo approccio, così sincero e diretto, riflette la sensibilità naturalistica che caratterizza la ritrattistica di Cantarini, capace di cogliere l’essenza interiore del soggetto rappresentato. Il dipinto assume anche un significato simbolico e biografico, se si considera il complicato rapporto tra Reni e Cantarini: un legame inizialmente segnato da stima e ammirazione, ma che si deteriorò progressivamente fino a culminare in una rottura violenta proprio nel 1637, anno indicativo per la datazione del ritratto. In questo senso, l’opera può essere letta non solo come omaggio al maestro, ma anche come testimonianza finale di un legame umano e artistico intensamente vissuto, destinato però a concludersi in modo drammatico. Un ritratto dunque di grande spessore psicologico, capace di coniugare arte e vita con straordinaria intensità.
1.4. Autoritratto con taccuino e lapis
Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) Autoritratto con taccuino e lapis 1634-1635 circa. Olio su tela Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Galleria Corsini, inv. 290
«Fu il Cantarini di statura ordinaria, ben formato di membra, d’aspetto alquanto fiero, di colore olivastro, d’occhio vivace: in sostanza poi più tosto brutto che bello, e quale insomma apparir dovrebbe nel tralasciato ritratto, indarno da me ricercato, e richiesto. Fu egli altiero molto, e satirico, non meno che per proprio istinto, e natura, per motivo et istigazione degli adulatori, quali per proprio interesse, eccedendo nel lodarlo, e solo studiando il compiacerlo, fomentavano questo suo genio e lo lasciavano senza riparo traboccar tal volta negli accessi della presonzione e della maldicenza». Così Carlo Cesare Malvasia tratteggiò l’aspetto e il carattere di Simone Cantarini, artista da lui ammiratissimo, del quale bramava possedere un ritratto, che non è da escludere possa essere identificato proprio in questo. Questo dipinto, non finito o in alcune parti solo abbozzato, ben si attaglia a quello appena menzionato. Tuttavia, anche al fine di sminuirlo rispetto al «divin Guido», il biografo non esitò a stigmatizzare il Pesarese come «bugiardo, traditore, insofferente ai consigli come alle critiche, avido di denaro, facile a deludenti avventure amorose, ribelle a ogni autorità, maldicente e soprattutto superbo», e dunque anche la sua descrizione fisica doveva corrispondere a queste discutibili caratteristiche. L’artista, non ancora trentenne, non si rappresentò con la tavolozza e il pennello, bensì con la matita e il taccuino nell’atto di disegnare, in un’immagine ufficiale e colloquiale al tempo stesso. Il giovane pesarese emerge dall’ombra vibrata del fondo con il volto perfettamente a fuoco e il resto in sprezzata dissolvenza. I contorni dell’epidermide sono messi in risalto da aloni bituminosi attorno al viso e alle mani, con rapide pennellate scure a suggerire la forma e la fattura del giuppone nero, da cui fuoriescono candidi manichetti di lino e un colletto piatto dal bordo ricamato. Il volto “parlante” del ragazzo, illanguidito dalla bocca appena dischiusa e dal contorno ben delineato, è quello di un professionista precoce, già affermato e sicuro di sé, a proprio agio nell’espressione risoluta di chi crede di saperla lunga. L’anello d’oro che porta al dito è l’unico indizio di una condizione di qualche agio, a corredo della sobria eleganza del suo abito. Talvolta considerato un esercizio giovanile dell’inizio del quinto decennio del secolo o datato agli ultimi anni di attività del pittore, questo Autoritratto della Galleria Corsini costituisce una prova relativamente precoce, da collocare attorno al 1634-1635, quando l’artista poté osservare in presa diretta la genesi del non finito che segna l’«ultima maniera» di Reni.
1.5. Allegoria della Pittura
Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) Allegoria della Pittura 1633-1635 circa. Olio su tela Repubblica di San Marino, Istituti Culturali Musei di Stato
«Ivi ritratto di una giovane donna per parte con tavolozza e pennelli: ha una sopra vesta così legata su la spalla come le antiche statue donnesche. Credesi da alcuni Ritratto suo proprio ch’è falso, forse ha effigiato la pittura stessa. Il volto è bellissimo pieno di grazia e di espressione». Così Luigi Lanzi descriveva un dipinto che vedeva nella nobile casa dei marchesi Mosca a Pesaro, mecenati e protettori di Simone Cantarini. Parole che evocano il nostro dipinto e non solo per la descrizione iconografica e per la bellezza piena di espressione della giovane, ma anche per riferire che si riteneva un autoritratto del pittore. Lanzi non lo crede, eppure è quasi dubbioso che si tratti della raffigurazione della Pittura, nonostante l’iconografia sia esplicita e rispettosa dei canoni dettati dall’Iconologia di Cesare Ripa. Per questo, attualmente, è proprio questa opera la principale candidata a essere riconosciuta in quella vista da Lanzi. Sia per le espresse consonanze con il precedente Autoritratto sia per lo stile affine, decisamente giovanile, ricco di morbidezze venete e naturalismo marchigiano, in una formula già unica, di mescolanze inattese con le novità bolognesi e quelle caravaggesche, forse ancora disponibili solo per tramite di artisti del territorio, come Giovanni Francesco Guerrieri, o altri che vi avevano lasciato opere. Il soggetto è noto in altre versioni dipinte con varianti, di qualità più sostenuta, come quella in collezione Sgarbi a Ro ferrarese o copie, come quella del Museo nazionale di Varsavia. Ma, oltre al dato iconografico e stilistico, conforta il riconoscimento con l’opera descritta da Lanzi, l’affinità della tela di San Marino con l’Autoritratto lì citato, forse voluta dal pittore, data una reale somiglianza: le labbra carnose, gli occhi scavati. Un’adesione totale fra artista e arte e una rivoluzionaria declinazione al «femminile» delle sue qualità espressive. Femminilità che è emozione, movimento fugace, sguardo dolce ma accattivante rivolto allo spettatore. Il riflettersi delle due immagini, Allegoria e Autoritratto, induce l’artista a optare per la mobile posizione di tre quarti rispetto alla prima idea frontale e più statica che affiora fantasmatica sullo sfondo.
2. Urbino e i Barberini
Il 28 aprile 1631 Francesco Maria II della Rovere muore nel suo palazzo di Casteldurante (chiamata successivamente Urbania in onore del papa Barberini). Si conclude così la gloriosa dinastia dei Della Rovere a vantaggio dell’espansione dello Stato pontificio, che raggiunge la sua massima estensione. In quel frangente, entrano nel Ducato le forze pontificie guidate dal principe Taddeo Barberini, generale della Chiesa. Nello stesso anno, Taddeo è nominato Prefetto di Roma, carica spettante per consuetudine proprio al duca di Urbino, e suo fratello minore Antonio, creato cardinale nel 1627, è nominato legato della nuova provincia pontificia. Pochi anni dopo Antonio è sostituito dal fratello maggiore, il cardinale Francesco: il Ducato di Urbino era diventato un affare di famiglia. Antonio mette in atto senza indugi i termini della Devoluzione: occupa il palazzo ducale, vi appone i propri stemmi e prende possesso dei dipinti rinascimentali dello Studiolo di Federico da Montefeltro. Assieme ad altre importanti opere, i dipinti urbinati vengono riallestiti a Roma nel palazzo della famiglia del pontefice, appena costruito alle pendici del Quirinale.
2.1. Ritratto di Antonio Barberini
Il Ritratto di Antonio Barberini come cavaliere dell’Ordine di Malta, eseguito da Ottavio Leoni tra il 1625 e il 1627 e oggi appartenente alla collezione Andrea Miari Fulcis, è un’opera di particolare rilievo per il suo valore storico e simbolico. Si tratta infatti dell’unica effigie dipinta che raffigura Antonio Barberini junior, il più giovane dei nipoti di papa Urbano VIII, nell’abito cerimoniale dell’Ordine di Malta, un ruolo che segnava il suo ingresso ufficiale nella vita pubblica e religiosa dell’epoca. In questo ritratto, Leoni – celebre ritrattista romano del primo Seicento – adotta un linguaggio visivo più formale e controllato rispetto a quello più espressivo e psicologicamente penetrante che altri, come Simone Cantarini, utilizzeranno per rappresentare lo stesso personaggio qualche anno dopo. Qui, infatti, l’immagine di Antonio non punta tanto a coglierne la complessità interiore quanto a sancirne il prestigio e il rango, presentandolo con l’iconografia tradizionale e solenne che si addice a un giovane destinato a un futuro di potere e responsabilità. La veste da cavaliere, riccamente decorata e simbolo di un’identità nobiliare e religiosa, è al centro della composizione, conferendo all’intero dipinto una funzione celebrativa. Tuttavia, sotto questa superficie ufficiale, si intravede comunque la freschezza e l’ambizione di un giovane colto in un momento cruciale della propria affermazione sociale. L’opera, quindi, si configura come documento visivo di un passaggio biografico significativo, nonché come testimonianza dell’arte ritrattistica di Leoni, capace di equilibrare rappresentazione istituzionale e accenni di individualità.
2.2. Tre versioni del Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior
2.2 [2.2a – 2.2b – 2.2c] Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) a. Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior 1631 ca. Olio su carta incollata su tela Iscrizioni: sul telaio un’etichetta della ditta di spedizioni Otto e Rosoni di Roma con l’indicazione «312/Sig. Del Drago»; un timbro della Regia dogana di Firenze «n. 5» del 22 febbraio 1915/ Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini, inv. 4685 b. Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior 1631 ca. Olio su tela Roma, collezione privata c. Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior ante 1636. Olio su tela Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Galleria Corsini, inv. 317
Il giovane pittore e il giovane cardinale si conobbero attorno al 1631, tra Pesaro e Urbino, quando Simone Cantarini ritrasse Antonio Barberini su carta e tela: forse un omaggio a un mecenate o una commissione del legato apostolico, come suggerisce l’esistenza di più versioni simili della stessa effigie. Questa serie di ritratti, oggi esposta al completo, rivela un rapporto duraturo che culminò nel 1637 con la Trasfigurazione per il Forte Urbano di Castelfranco Emilia e proseguì a Roma tra il 1640 e il 1642. L’effigie su carta applicata su tela, acquisita nel 2021 dalle Gallerie Nazionali di Roma, è il ritratto più vivo del cardinale dopo quelli di Ottavio Leoni tra il 1625 e il 1630. Il volto magnetico, con baffetti, capelli scomposti e sguardo diretto, emerge da un fondo scuro. Colletto e veste sono solo accennati, con rapide pennellate che enfatizzano espressione e fisionomia, in uno studio di bravura, “con la parte non finita abbozzata in pochi tocchi sintetici degni di un Cézanne”. L’opera fu conosciuta solo nel 1974, durante la vendita della collezione del principe del Drago, inizialmente attribuita erroneamente a Voet. Quello stesso anno fu dichiarata di interesse culturale, poi esposta a Firenze nel 1979, acquistata dai Santilli e infine divenuta proprietà statale tramite prelazione. Già avvicinata a Bernini per la libertà stilistica, fu attribuita a Cantarini da Ambrosini Massari, che l’ha collegata ad altri due ritratti del cardinale: uno nella collezione Corsini (1636), l’altro di formato maggiore e oggi in una collezione romana privata. Entrambi derivano dal prototipo già dei Del Drago. L’opera del Del Drago è in olio su carta – tecnica rara per Cantarini ma sperimentata da Barocci e dai Carracci – e si distingue per forza espressiva e velocità d’esecuzione. Lo stesso slancio pittorico si ritrova nella versione su tela di riuso, dove, sotto la mozzetta, è riemersa una figura femminile panneggiata, forse una Virtù, sant’Elena o sant’Orsola, legata stilisticamente alle sante delle pale giovanili di Simone. La nomina cardinalizia di Antonio, avvenuta nel 1628, fornisce un termine post quem, mentre l’inventario Corsini del 1636 è l’altro estremo cronologico. Karin Wolfe ha datato un esemplare al 1629, riferendosi a un viaggio del cardinale a Pesaro e a possibili citazioni nel suo Diario. Armanda Pellicciari ha ipotizzato una committenza di Ottavio Corsini, vicino ai Barberini e presente a Pesaro tra 1629 e 1630. Ambrosini Massari propone invece il 1631, quando Antonio fu inviato a Urbino e accolto con grandi onori. In quell’occasione, il pittore avrebbe realizzato il piccolo olio “alla macchia”, ritraendo il giovane cardinale con freschezza e immediatezza superiori agli altri due esemplari, uno dei quali potrebbe essere opera di bottega o copia da un originale perduto.
2.3. Legatione del Ducato d’Urbino con la diocesi, e governo di Città di Castello ed altri governi e Stati confinanti
La Legatione del Ducato d’Urbino con la diocesi, e governo di Città di Castello ed altri governi e Stati confinanti, realizzata nel 1697 da Filippo Titi, rappresenta una significativa testimonianza cartografica del mutamento politico e amministrativo dell’Italia centrale alla fine del Seicento. Questa acquaforte acquerellata, oggi conservata presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro (inv. DS 310), fu pubblicata all’interno del Mercurio Geografico, un importante atlante edito a Roma da Giovanni Giacomo De Rossi tra il 1669 e il 1703. Curato dal celebre geografo Giacomo Cantelli da Vignola e sostenuto dalla Curia romana, l’atlante ambiva a offrire una rappresentazione aggiornata e politicamente strategica dei territori soggetti allo Stato Pontificio o ad esso confinanti. La mappa di Titi si distingue in particolare per il fatto di essere la prima a riportare ufficialmente il nuovo nome del territorio dell’ex Ducato di Urbino, in seguito alla sua devoluzione allo Stato della Chiesa, avvenuta nel 1631. In questo senso, il lavoro di Titi – originario di Città di Castello e legato alla figura del cardinale Gaspare Carpegna – assume un valore storico oltre che geografico: non solo documenta l’organizzazione amministrativa e territoriale dell’area, ma riflette anche il consolidamento dell’autorità papale su un’importante regione un tempo autonoma. Attraverso una grafica raffinata e un uso attento dell’acquerello, la carta fonde precisione descrittiva e intento politico, inserendosi pienamente nel progetto della Curia di affermare visivamente il proprio dominio. L’opera di Titi, dunque, non è soltanto una mappa, ma un documento del potere pontificio e della sua volontà di controllo territoriale e rappresentazione simbolica.
2.4. Eleonora Albani Tomasi
Il Ritratto di Eleonora Albani Tomasi, dipinto da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1638 circa, rappresenta uno dei vertici assoluti della ritrattistica europea del Seicento. Conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino (inv. 13710), in comodato dalla collezione Banca Intesa Sanpaolo, il dipinto raffigura Eleonora Albani, figura di spicco dell'aristocrazia pesarese e moglie di Francesco Maria Tomasi, potente e influente personaggio della città. La coppia fu tra i primi committenti di rilievo per il giovane Cantarini, il che rende questo ritratto non solo un'opera d'arte straordinaria, ma anche una tappa fondamentale nella formazione e nell’affermazione dell’artista. Il dipinto è accompagnato da due iscrizioni: una moderna, in alto, aggiunta nei primi anni del Novecento, che identifica la donna; e una più antica, sul retro della tela, che ne attesta la biografia essenziale, ricordando il matrimonio avvenuto nel 1593 e la morte a Pesaro nel 1650, all’età di 77 anni. L’opera colpisce per la sua intensità e per la capacità di sintesi tra verità psicologica e resa formale. Il volto di Eleonora è segnato dal tempo e dall’esperienza, ma anche dalla dignità e dall’intelligenza, restituite con uno sguardo diretto e privo di idealizzazione. In questo equilibrio tra naturalezza e introspezione, si riconosce quel naturalismo profondo che, secondo Roberto Longhi, caratterizza la grande "pittura della realtà", da Caravaggio fino a Courbet. Cantarini, in questa tela, si dimostra capace di superare i modelli retorici del ritratto ufficiale, offrendo una rappresentazione autentica, sincera e sorprendentemente moderna di una donna del suo tempo.
2.5. Ritratto di gentiluomo e gentildonna con rosario
Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) Ritratto di gentiluomo e gentildonna con rosario 1634-1639 circa. Olio su tela Bologna, Collezioni d’arte di storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna
Nel suo passaggio sul mercato antiquario, nel 2006, la smagliante tela giungeva con la corretta attribuzione a Simone Cantarini, dovuta a Federico Zeri, che l’aveva vista nella sua ultima sede collezionistica, come testimonia una lettera che accompagnava l’opera, datata 18 giugno 1968. La committenza della città d’origine, implicita e documentata per l’Eleonora Albani Tomasi, sembrerebbe convincente anche per questo dipinto, non solo sulla base di un’antica nota scritta da Paolo D’Ancona che lo accompagnava, dichiarandone la provenienza dalla collezione Machirelli di Pesaro, ma soprattutto alla luce di menzioni inedite relative al dipinto. La prima risale al 1829 e cita, nella quadreria pesarese dei conti Machirelli-Giordani, «due ritratti vestiti di nero, più che mezze figure di un vecchio e di una vecchia: pittura molto pregevole di Simone Cantarini». L’erudito bolognese Gaetano Giordani vedeva l’opera nella raccolta dove era giunta da un’altra rinomata collezione cittadina, come ricordava anche il pittore pesarese Giannandrea Lazzarini: «[...] un soggetto simile di un vecchio, e di una vecchia ritratti dal valente nostro Simone in una tela della sceltissima, e preziosissima raccolta de’ Quadri della Nobil Casa Zongo Ondedei». Quest’ultima risulta dunque la provenienza più antica oggi nota del dipinto e forse gli Zongo Ondedei ne furono i committenti. Potrebbe anche trattarsi di Giuseppe Zongo Ondedei, cugino di Girolamo Giordani, che gli scrive da Roma per avere opere di Cantarini nel 1643. Con il matrimonio di Donna Teresa con Odoardo Machirelli, nel 1796, vitale per il dissestato patrimonio di quest’ultimo l’opera, con gli sposi, passò a palazzo Machirelli-Olivieri. Nel dipinto trionfa il registro più esplicitamente naturalista di Cantarini, che appare molto ben informato sui contesti di pittura caravaggesca, non solo sul territorio, aprendo a immaginare spostamenti verso Roma anche sulla metà del quinto decennio. Un confronto con opere che si scalano tra il 1635 e il 1638 circa, dall’Autoritratto della Galleria Corsini al San Tommaso da Villanova della Pinacoteca Civica di Fano, conforta questa ipotesi. La donna, nella sua dimessa semplicità e anche per quella posizione retrocessa, introduce nel quadro una accostante immediatezza, che sa diventare austero realismo in un altro capolavoro del genere, il già citato Ritratto di Eleonora Albani Tomasi. Due grandi famiglie tra Pesaro e Urbino, forse legate a movimenti riformisti, come gli oratoriani, per i quali Cantarini avrebbe realizzato il Miracolo dello storpio per San Pietro in Valle a Fano e la Maddalena e il San Giuseppe per i filippini di Pesaro. Larghe frange della nobiltà erano state ispirate da Filippo Neri e Carlo Borromeo: si pensi, per esempio, al dipinto di Giovanni Francesco Guerrieri, sempre per i filippini di Fano, coi Nobili Petrucci che omaggiano Carlo Borromeo vestiti da mendicanti. Questo dato potrebbe spiegare meglio l’immagine fin troppo dimessa dei personaggi ritratti, in un ambiente addirittura povero, che diventa ancor più esplicito nell’Eleonora Albani, ma con ben in evidenza, in entrambe le donne, il rosario. La preclara fama del Cantarini nel settore ritrattistico fu il motivo fatale della chiamata del pittore a Mantova per realizzare un ritratto del duca, principio della serie di sciagure che lo portarono alla morte.
3. Elegie Sacre
L’indimenticata lezione di dolcezza che trascorre da Raffaello a Federico Barocci è tradotta da Simone Cantarini in un linguaggio nuovo, diversamente sentimentale. Il pittore infonde alle diverse iconografie disponibili una rinnovata lirica di gesti fatta di sguardi e silenzi, momenti intimi e quotidiani, estasi e malinconia. Basti ammirare la selezione sceltissima intorno al tema della Madonna col Bambino, uno dei soggetti da cui meglio traspare la vena elegiaca dell’artista: dallo scatto di verità caravaggesca del dipinto del Prado, al culmine di purezza neo-raffaellesca, partecipe del revival rinascimentale del Sassoferrato, evidente nella Madonna della rosa, nell’inedita Sacra Famiglia di collezione privata o nella Vergine del Rosario di Brescia e nel San Giacomo di Rimini, restaurato per questa occasione. «Elegie sacre» perché anche nel sacro si insinua quella forma di poesia che è soprattutto sfogo interiore e individuale, del cuore e del sentimento: nelle pale d’altare, come nei dipinti da stanza si alza un canto sommesso, teatrale e vero, che sa modulare la voce più aulica di Guido Reni con quella più terrena del naturalismo post-caravaggesco. Tale ricerca prese avvio da un’educazione veneta e vagamente baroccesca, già evidente nell’Adorazione dei Magi, probabile frutto di un viaggio di formazione a Venezia tra il 1627 e il 1628. Poco dopo, attorno ai diciotto anni, Cantarini era talmente sicuro di sé da potersi ritrarre nel volto di san Terenzio, patrono di Pesaro, nella sua prima commissione importante, la pala di Santa Barbara, destinata alla parrocchia della sua città natale, San Cassiano, la stessa dove era stato battezzato il 21 agosto del 1612, a pochi passi dalla casa di famiglia. La patria rimase sempre per lui un punto di riferimento. Del resto, anche un altro dei suoi capolavori, l’Immacolata e santi della Pinacoteca di Bologna, restaurato per la mostra, gli fu commissionato dai nobili Gavardini, bresciani trasferiti a Pesaro.
3.1. Sacra Famiglia
La Sacra Famiglia realizzata da Simone Cantarini tra il 1640 e il 1642 circa, oggi conservata in una collezione privata, rappresenta un’opera di particolare interesse all’interno del catalogo dell’artista, sia per la sua destinazione alla devozione domestica sia per l’inedita intensità affettiva che la caratterizza. Eseguita durante o immediatamente dopo il soggiorno romano di Cantarini, l’opera si distingue dalle numerose versioni dello stesso tema che l’artista affrontò nel corso della sua carriera, introducendo una nuova e toccante interpretazione del legame familiare. A emergere con forza è il delicato e silenzioso dialogo tra il Bambino Gesù e san Giuseppe, elemento tutt’altro che secondario nella composizione. Diversamente da molte rappresentazioni tradizionali del soggetto, dove la centralità è affidata quasi esclusivamente alla Madonna, qui Giuseppe riceve uno spazio relazionale e iconografico di assoluto rilievo. Lo scambio di sguardi tra padre e figlio, reso con una naturalezza disarmante, rivela la volontà dell’artista di sottolineare l’umanità e la quotidianità della scena sacra, avvicinandola alla sensibilità del fedele contemporaneo. La composizione è costruita con equilibrio e misura, in un clima di calma contemplazione, che riflette le suggestioni assimilate da Cantarini a Roma, dove aveva potuto confrontarsi con i modelli di Reni, Carracci e della scuola emiliana, rielaborandoli con una cifra stilistica personale. L’atmosfera luminosa, la morbidezza dei passaggi tonali e la finezza psicologica delle espressioni rendono questa tela una testimonianza esemplare del suo linguaggio maturo, capace di coniugare devozione e sentimento, forma classica e intimità emotiva.
3.2. Sacra Famiglia (Museo del Prado)
Ancora non sappiamo se la Sacra Famiglia in esame, presente nella collezione Reale dal Settecento, venne acquistata da Carlo IV direttamente sul mercato italiano o se arrivò in Spagna attraverso intermediari. Raffaella Morselli ha proposto di identificarla con la «Madonna col putto in brazzo [e] S. Gioseffo che legge un libro, del Pesarese», descritta nel 1658 nella collezione di Cesare Locatelli, un nobile bolognese per il quale Cantarini aveva eseguito diversi quadri. All’epoca della mostra di Bologna, del 1997, la lettura dell’opera risultava limitata da spesse patine di sporcizia e vernici ossidate che non consentivano di apprezzare a pieno i volumi e i colori originali del dipinto. Dopo il recente restauro, è riapparsa la tenda nel fondo (imbrunita per l’alterazione, purtroppo irreversibile, dei pigmenti verdi e blu a base di rame). Il dipinto è caratterizzato da un unico significativo pentimento, relativo al posizionamento della testa del Bambino. Questa Sacra Famiglia, qualificata da un severo classicismo, adotta lo schema tradizionale della composizione con la Madonna posta di tre quarti. Il richiamo a prototipi raffaelleschi e reniani, nel volto femminile – con la bocca carnosa, il naso pronunciato, le sopracciglia ben delineate e gli occhi incavati e tondi – e un atteggiamento più naturalistico nella descrizione di quello di san Giuseppe, riprendono una tipologia che torna più volte in Cantarini. La fattura corposa e al contempo morbida dell’abito della Vergine con pieghe profonde e il suo colore arancione intenso sono prossimi a quelli della Maddalena penitente di Pesaro. Calibrati effetti luministici modulano in maniera diversa il corpo del Bambino e il volto di Maria, esaltati per contrasto dallo sfondo scuro, un tempo verdastro, mentre Giuseppe rimane in secondo piano, quasi nell’ombra. L’atteggiamento della Vergine, con il busto eretto di profilo e il capo rivolto all’osservatore su cui fissa lo sguardo, è un unicum nella vasta produzione di Sacre Famiglie dell’artista, anche per il formato piuttosto ridotto. La posizione della Vergine può essere accostata a quella dell’Allegoria della Pittura nella collezione Cavallini Sgarbi, mentre la figura di san Giuseppe immerso nella lettura sembra essere stata rielaborata a partire dalla Pala Olivieri di Guido Reni. Il Bambino in piedi che si gira di scatto verso il genitore, infine, è da avvicinare alla Sacra Famiglia della chiesa bergamasca di Sant’Evasio, in posizione rovesciata. Il quadro è da considerarsi un’opera tarda, eseguita quando il pittore aveva messo a frutto, al ritorno dal suo soggiorno romano, lo studio della ritrattistica di Raffaello e della scultura antica, dopo una lunga familiarità con i modelli di Guido Reni, Domenichino e Pier Francesco Mola. Secondo Alfonso Pérez Sánchez e Mena Marqués, la tela può essere datata attorno al 1645, mentre secondo Raffaella Morselli verso il 1640. La prima ipotesi è quella più probabile, in continuità con le opere citate, in particolare la Maddalena penitente, documentata al 1644-1646. La figura della donna di profilo che gira la testa ricompare più volte nella grafica dell’artista, probabilmente a partire dalle diverse idee da lui formulate per l’Allegoria della Pittura oggi a San Marino, un’invenzione più precoce dell’Allegoria Sgarbi, in posizione rovesciata.
3.3. Adorazione dei Magi
L’Adorazione dei Magi, dipinta da Simone Cantarini tra il 1628 e il 1630 circa, rappresenta una delle sue prove più precoci e al tempo stesso significative, oggi conservata nella UniCredit Art Collection, presso la Quadreria di Palazzo Magnani a Bologna. L’attribuzione dell’opera è supportata sia da documenti storici che da solide considerazioni stilistiche, le quali collocano il dipinto nei primissimi anni dell’attività del pittore pesarese, immediatamente successivi al suo soggiorno a Venezia. Proprio l’esperienza veneziana lascia un’impronta evidente sulla tela: lo sguardo di Cantarini, ancora giovane, si era soffermato con ammirazione sulle grandi personalità della pittura lagunare del Cinquecento, da Tiziano a Veronese, passando per i chiaroscuri vibranti e narrativi di Jacopo Bassano. Tuttavia, ciò che rende quest’opera davvero originale è la capacità del pittore di filtrare queste suggestioni attraverso una propria visione personale, nutrita dal contatto diretto con Claudio Ridolfi, pittore veronese attivo nelle Marche, che fu figura di riferimento nei suoi anni formativi. A questo si aggiunge un’attenzione crescente verso la scuola bolognese, in particolare verso le soluzioni compositive dei Carracci e l’idealizzazione lirica di Guido Reni, che Cantarini inizierà ad approfondire proprio in questi anni. L’opera mostra già una straordinaria maturità nella composizione e nella resa cromatica, con una narrazione dinamica ma ordinata, capace di equilibrare solennità sacra e calore umano. L’influenza veneta si riflette nei colori ricchi e luminosi, mentre lo spirito marchigiano si riconosce nella freschezza dei volti e nel senso di realtà diffuso nella scena. Già in questa Adorazione, dunque, emerge la cifra originale di Cantarini: un’arte che guarda alle grandi tradizioni italiane, ma che le rielabora con uno sguardo nuovo, personale e sorprendentemente moderno.
3.4. Sacra Famiglia con libro e rosa
La Sacra Famiglia con libro e rosa, realizzata da Simone Cantarini intorno al 1638, è un’opera di profonda delicatezza emotiva e sobria raffinatezza, oggi conservata nella collezione Signoretti presso Palazzo Perticari Signoretti a Pesaro. Il dipinto rappresenta una tenera interpretazione di un soggetto molto amato dall’artista: quello della Sacra Famiglia, che Cantarini affrontò più volte nel corso della sua carriera, declinandolo ogni volta in modi diversi, capaci di riflettere lo sviluppo della sua sensibilità pittorica. In questa versione, l’artista adotta una gamma cromatica volutamente ridotta, composta da tonalità terrose e opache, che conferiscono alla scena un tono intimo e raccolto. Si tratta di una “declinazione non finita” del soggetto, come suggerisce la resa pittorica sobria e a tratti sommaria, forse volutamente incompleta, che accresce l’effetto di spontaneità e naturalezza. L’attenzione ai gesti, agli sguardi e agli oggetti simbolici – in particolare il libro e la rosa – contribuisce a una narrazione silenziosa, carica di significati spirituali e affettivi. Un dato particolarmente rilevante è offerto dalla documentazione d’epoca: grazie a un’incisione datata al 1638, è possibile stabilire con precisione non solo la cronologia dell’opera, ma anche la sua prima collocazione. Il dipinto, infatti, entrò nella prestigiosa collezione del conte Alessandro Fava a Bologna, provenendo direttamente da Pesaro. Il tramite di questo passaggio fu Lorenzo Pasinelli, allievo di Cantarini, che ne garantì la circolazione nel contesto bolognese. L’opera rappresenta così non solo un momento di intensa poesia pittorica, ma anche un tassello significativo nella fortuna collezionistica e nella rete dei rapporti tra Pesaro e Bologna durante il Seicento.
3.5. Riposo durante la fuga in Egitto
Il Riposo durante la fuga in Egitto, dipinto da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1640 su supporto in rame, è un’opera che rivela tutta la sensibilità dell’artista nel trattare i soggetti sacri attraverso una lente affettiva e profondamente umana. Conservato oggi in una collezione privata, il dipinto reca sul retro della cornice alcune iscrizioni – tra cui il nome “Boschi” e i numeri d’inventario 32 e 61 – insieme a bolli in ceralacca non identificati, che testimoniano una storia collezionistica ancora in parte da ricostruire. Il tema del Riposo durante la fuga in Egitto rappresenta uno dei motivi più ricorrenti nella produzione di Cantarini, al pari della Sacra Famiglia, e viene declinato qui in una versione particolarmente intima e domestica. L’artista, infatti, si distingue per un approccio narrativo che, pur ancorato alla tradizione iconografica, si concentra sulle relazioni emotive tra i personaggi. La Vergine, san Giuseppe e il Bambino non sono solo figure sacre, ma anche protagonisti di una scena familiare, immersa in un’atmosfera di quiete e protezione, spesso mediata da paesaggi sereni e luci calde. La scelta del rame come supporto, tipica di opere destinate alla devozione privata o al collezionismo raffinato, consente a Cantarini di ottenere un’eccezionale precisione nella resa dei dettagli e una brillantezza cromatica che accresce l’intensità visiva della scena. L’attenzione alla dimensione affettiva di questo soggetto emerge anche da numerosi studi grafici e incisioni realizzati dall’artista, a conferma dell’importanza che esso rivestiva nel suo percorso creativo. In questo piccolo ma prezioso capolavoro, Cantarini riesce ancora una volta a fondere spiritualità e quotidianità, offrendo una visione profondamente umana del sacro.
3.6. Madonna col Bambino in gloria e i santi Barbara e Terenzio
La pala proviene dalla chiesa pesarese di San Cassiano, dove il pittore era stato battezzato il 21 agosto 1612. Verosimilmente fu commissionata dalla Pia Unione di Santa Barbara, antica congregazione che aveva sede nello stesso tempio, nel quale la pala rimase fino al 1811, quando fu trasferita a Milano durante le spoliazioni napoleoniche, presso la Direzione generale del demanio, per essere collocata nella Pinacoteca di Brera. Nel 1847 fu posta nell’abside della parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo ad Aicurzio e dal 2021 è esposta nel palazzo Ducale di Urbino. La tela rappresenta, nella parte superiore, la Madonna col Bambino circondata da angeli musicanti e cherubini. Nella sezione inferiore della composizione si riconoscono santa Barbara, avvolta in un manto rosso mentre indica il gruppo divino, e san Terenzio, patrono di Pesaro in veste di guerriero, con lo sguardo rivolto al cielo. Lo sfondo scuro e contrastato, vicino alla matrice veneta derivante da Claudio Ridolfi, evoca nell’architettura visibile in basso Rocca Costanza, fortezza simbolo della città adriatica. Non menzionata da Carlo Cesare Malvasia, la pala viene citata per la prima volta nel volume di Antonio Becci del 1783, dedicato alle chiese di Pesaro, come «insigne lavoro di Simone da Pesaro, ancor giovane»; «nella figura di S. Terenzio si conosce un pentimento nella mano che tiene al petto, e che prima stava col braccio disteso; e dicesi, che Simone la mutasse quando da Bologna ritornò in Patria». Nello stesso volume si fa riferimento a una fonte precedente, che riporta come Cantarini dipinse «il quadro di S. Barbara in età di anni diciotto». La pala fu dunque realizzata all’inizio degli anni Trenta, alla vigilia del primo soggiorno dell’artista a Bologna. Secondo Anna Colombi Ferretti, la pala sarebbe stata modificata dopo il 1639, quando Cantarini è nuovamente documentato in patria. La studiosa giungeva a questa conclusione sulla scorta delle fonti, dell’osservazione dei vari pentimenti a vista e, soprattutto, per lo stile apparentemente più maturo della figura di santa Barbara. Grazie al restauro effettuato nel 1997 si è tuttavia potuto appurare che i vari pentimenti erano tutti «interventi in corso d’opera», non presentando la superficie pittorica nessuna discontinuità. Dal punto di vista stilistico, il linguaggio «insieme acerbo e personale» dell’opera è stato ben enucleato da Daniele Benati: da Ridolfi derivano gli impasti veneziani, il modello del gruppo celeste e alcuni dettagli parlanti come il volto di san Terenzio in cui si riconosce un autoritratto del giovane artista; i colori iridescenti delle vesti degli angeli rivelano l’influenza di Giovanni Francesco Guerrieri, mentre nella figura di santa Barbara un sapore reniano affiora appena, filtrato dalle opere di Ludovico Carracci e di Carlo Bononi, che Simone poteva aver visto a Fano.
3.7. Madonna del Rosario
La Madonna del Rosario di Simone Cantarini, databile tra il 1637 e il 1640, è un’opera che coniuga intimità devozionale e raffinatezza formale, oggi conservata presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia (inv. 193). La tela, probabilmente destinata alla devozione privata della nobile famiglia pesarese Mosca, rappresenta un raro esempio di trasposizione pittorica di una scultura venerata: si tratta infatti della riproduzione in pittura della celebre statua della Madonna del Rosario custodita nella cappella omonima della chiesa di San Domenico a Bologna, oggetto di profonda venerazione popolare. La scelta di riprodurre in forma pittorica una scultura devozionale sottolinea non solo la rilevanza del soggetto all'interno della cultura religiosa dell’epoca, ma anche la volontà di renderlo accessibile e contemplabile in ambito privato, al di fuori del contesto liturgico originario. In questa tela, Cantarini rielabora con mano sensibile e ispirata i modelli stilistici del suo maestro ideale, Guido Reni, cui si rifà sia nell’equilibrio compositivo sia nella purezza delle linee e nella serenità espressiva della Vergine. La gamma cromatica, rischiarata da toni luminosi e delicati, accentua il senso di grazia e sacralità dell’immagine, conferendole una presenza eterea e meditativa. Realizzata negli ultimi anni della sua formazione, quando l’influenza bolognese è ormai pienamente assimilata, l’opera testimonia la maturazione stilistica di Cantarini e la sua capacità di coniugare idealizzazione e affetto umano. La Madonna del Rosario si presenta così come un raffinato esempio di devozione privata e, al tempo stesso, come un tributo pittorico alla religiosità popolare di matrice domenicana, profondamente radicata nella cultura figurativa emiliana del tempo.
3.8. Immacolata Concezione con santi
Un’Immacolata Concezione dall’iconografia peculiare che, per tipologia della figura, con i capelli lunghi sciolti sulle spalle e il volto trasfigurato, ricorda un’assunzione della Maddalena. La Vergine, assisa sulle nubi, volge il suo sguardo verso l’esterno con gli occhi gonfi, quasi socchiusi, come dopo aver pianto. L’abito candido, avvolto dal manto blu rigonfio adagiato sulle nubi fino a confondersi con esse, è messo in rilievo dalla luce dorata dello sfondo. Una luce calda che si riverbera tutt’intorno, generando ombre nette sul volto, sul collo e sulle mani di sant’Eufemia, inondando di chiarore san Giovanni scrivente e lasciando completamente in ombra san Nicola, immerso nella lettura, il cui abito nero contrasta con le vesti sgargianti e iridescenti delle altre figure. Al centro, un angioletto raffigurato in scorcio che sostiene la falce di luna, sulla quale poggia il piede la Vergine calpestando il suo abito, conferisce profondità alla composizione e introduce una dinamica che trova eco nel volo giocoso degli altri angeli, i quali stringono un ramo di ulivo, una palma, uno specchio e un giglio (simboli dell’Immacolata e delle sue virtù), fino alle schiere di angeli musicanti sullo sfondo. Il volto di sant’Eufemia, «ragazza dall’incarnato perlaceo, fatta di vera carne e vestita alla moda», fu oggetto di un accurato studio grafico preliminare alla sua realizzazione. Tanto accoglienti e invitanti sono la sua gestualità e la sua espressività, in rapporto diretto con l’osservatore, tanto appare ammonitore lo sguardo del leone ammansito ai suoi piedi. Il rilievo dato alla santa sottolinea l’origine bresciana dei committenti, ossia la famiglia Gavardini, trasferitasi da Brescia a Pesaro. La destinazione originaria del dipinto è ancora incerta: probabilmente realizzato per la chiesa di San Giovanni di Pesaro, fu in seguito trasferito sull’altare Gavardini in Sant’Antonio, nella frazione di Sant’Eufemia a Limone di Gavardo, nei pressi di Brescia. Nel 1680 fu venduto dalla famiglia al bolognese Giuseppe Roda, per poi approdare, nel 1823, alla Regia Pinacoteca Nazionale di Bologna. Dal punto di vista stilistico, l’influenza di modelli veneti e lombardi si coglie nell’uso del colore e nella resa atmosferica del dipinto. La luce dorata che illumina la Vergine e i riflessi cangianti di alcuni tessuti rimandano alla grandiosa pala di Giovanni Girolamo Savoldo, oggi alla Pinacoteca di Brera ma un tempo collocata a Pesaro, che Cantarini ebbe certamente modo di studiare. Altre ascendenze sono già state riconosciute in Andrea Boscoli, Alessandro Turchi, Claudio Ridolfi e anche in Orazio Gentileschi per quel muretto sbrecciato che funge da fondale nella parte bassa della scena. A queste potrebbe aggiungersi una memoria da Lorenzo Lotto, un altro veneto naturalizzato marchigiano, di un’epoca precedente ma sicuramente interessante per la riflessione naturalistica che Cantarini stava portando avanti in quegli anni di spostamenti e nuove assimilazioni tra Marche, Veneto, Bologna e Roma. In particolare, nella grande pala di Cingoli si ritrova un muretto sbrecciato molto simile, e si può cogliere un’assonanza con il gesto dell’ammiccante Maddalena che sorregge il drappo rosso accostato all’abito dorato: lo stesso gesto, ma in controparte, della sant’Eufemia nel dipinto di Cantarini, con i colori delle vesti invertiti.
3.9. San Giacomo in gloria
Il San Giacomo in gloria di Simone Cantarini, eseguito tra il 1642 e il 1644, rappresenta una delle opere più significative della sua maturità artistica, ed è oggi conservato presso il Museo della Città “Luigi Tonini” di Rimini (inv. 102 PQ). In origine, la tela ornava l’altare maggiore dell’oratorio dedicato a San Giacomo nella stessa città, e testimonia un momento cruciale nel percorso del pittore pesarese: quello immediatamente successivo alla sua dolorosa e definitiva rottura con il maestro Guido Reni, avvenuta nel 1637. Proprio questa cesura segna l’inizio di una fase nuova nella pittura di Cantarini, in cui l’influenza reniana, ancora presente nella composizione e nell’equilibrio formale, si apre a soluzioni più personali, dinamiche e naturalistiche. Nel San Giacomo, la classicità idealizzata tipica del Reni viene infatti ammorbidita da una resa più calda e concreta del corpo e del volto del santo, colto in un’estasi luminosa ma al tempo stesso terrena. La figura, sollevata su una nube tra angeli e gloria celeste, è trattata con uno sguardo più vicino alla sensibilità romagnola di Guido Cagnacci, pittore contemporaneo che Cantarini sembra evocare nella morbidezza dei passaggi cromatici e nella maggiore intensità emotiva. L’opera si colloca dunque a pieno titolo in quella fase di transizione in cui Simone Cantarini, pur ancora legato ai modelli bolognesi, afferma una voce autonoma, capace di fondere idealizzazione e osservazione del reale. Il San Giacomo in gloria riflette perfettamente questa sintesi, e si impone come uno dei momenti più alti della pittura sacra del Seicento nell’Italia centro-settentrionale.
3.10. Madonna della Rosa
La Madonna della Rosa, firmata e datata 1642 da un’antica iscrizione presente sul retro della tela – «Anno 1642 Il Sig.re Simon da Pesaro fece Questo Quadro» – è considerata la versione più compiuta e raffinata di una delle composizioni più fortunate e riconoscibili di Simone Cantarini. Riemersa sul mercato internazionale solo nel 2009, oggi parte della collezione di Tommaso Caprotti, questa tela rappresenta un vertice assoluto della produzione del pittore pesarese, sia per qualità esecutiva che per profondità espressiva. Realizzata in un momento cruciale della carriera di Cantarini, a ridosso del soggiorno romano, l’opera riflette con chiarezza la piena maturazione di uno stile che fonde con straordinaria naturalezza diverse influenze. La compostezza della figura mariana, la nitidezza formale e la luminosità del volto rivelano l’assimilazione dell’eleganza idealizzata di Sassoferrato, pittore allora attivissimo a Roma. Allo stesso tempo, si avverte l’eco di una sensibilità “neoveneta”, fatta di luce diffusa, incarnati perlati e un senso di armonia visiva che richiama la lezione di Raffaello, filtrata però attraverso uno sguardo moderno e analitico. Ma accanto a queste citazioni colte, la Madonna della Rosa conserva anche una componente affettiva e realistica che affonda le radici nel naturalismo caravaggesco: la mano che regge il Bambino, lo sguardo tenero e partecipe della Vergine, il simbolismo semplice ma eloquente della rosa – fiore mariano per eccellenza – costruiscono una narrazione sacra, ma profondamente umana. In questa tela, Cantarini raggiunge un equilibrio raro tra idealizzazione e verità emotiva, tra raffinatezza formale e partecipazione devota, offrendo un’immagine mariana che incarna al tempo stesso bellezza celeste e vicinanza spirituale.
4. Santi umanisti e filosofi, oltre Caravaggio e Reni
Padre della Chiesa e filosofo antico, intellettuale vigoroso e patriarca ascetico: così Simone Cantarini celebrò san Girolamo, aggiungendo carne e sangue ai modelli aulici da lui assimilati nell’atelier del suo maestro bolognese. Più che la pittura, tuttavia, era la scultura a fornire i modelli più autorevoli per incarnare le virtù del santo umanista per eccellenza, che qui vediamo in diverse gradazioni della sua forza interiore. Alla base di queste rappresentazioni, distinte da un’intonazione eroica della senilità e da un’umanissima malinconia, sta soprattutto il modello del filosofo. Sappiamo dalle fonti che lo stesso Guido Reni, ispirato da un marmo antico visto a Roma, aveva modellato in terracotta una copiatissima testa, poi detta «del Seneca», che dovette influenzare, a sua volta, quelle create da Simone, anche lui avvezzo a plasmare modelli in creta per ottenere nelle sue figure risultati altrettanto naturalistici. Le fonti precisano inoltre che una sua testa scolpita era destinata alla produzione di santi e di eroi, e il confronto con le due impetuose teste di Reni (una inedita, l’altra restaurata per l’occasione) testimonia i termini di un rapporto tanto forte quanto libero, attestando ancora una volta l’intrigante incrocio, tutto barocco, tra classicismo e naturalismo. L’abbattimento degli schemi iconografici, come avviene nella sovrapposizione tra santi e filosofi antichi, sta al centro di quel corso umanizzante dell’arte che aveva avuto con Caravaggio una singolare accelerazione verso la modernità. Non a caso, sono proprio questi i soggetti in cui Cantarini fu più aderente al vero. Lo dimostrano il Sant’Andrea della Galleria Palatina di Palazzo Pitti, il Rinnegamento di Pietro di collezione privata, il San Giuseppe dei Musei Civici di Pesaro, il San Matteo di Palazzo Venezia a Roma e il magistrale San Girolamo della Fondation Bemberg di Tolosa, o quello della Pinacoteca Nazionale di Bologna, diversamente allineati alla compagine caravaggesca qui rappresentata da Bartolomeo Manfredi e Giovanni Francesco Guerrieri.
4.1. Rinnegamento di San Pietro e Sant’Andrea apostolo
Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) a. Rinnegamento di san Pietro 1635-1640. Olio su tela Pesaro, collezione privata b. Sant’Andrea apostolo 1635-1640. Olio su tela Firenze, Gallerie degli Uffizi
Un’occasione preziosa per vedere insieme due opere potenti di Cantarini, in una mostra che evidenzia la libertà e ricchezza di fonti del suo linguaggio formale, dove accanto al classicismo reniano si affianca il naturalismo caravaggesco. Forte è l’influenza di Giovanni Francesco Guerrieri, tramite fondamentale del caravaggismo nelle Marche e figura chiave nella formazione di Cantarini tra Pesaro, Fano e Urbino. Nel Sant’Andrea si percepisce un’energia guercinesca, mentre nel San Pietro emerge una drammaticità vicina a Ludovico Carracci. Il panneggio arancio del manto di Pietro rivela il debito con Guido Reni, influenzato a sua volta da Caravaggio, come mostra il celebre dipinto di Brera con Paolo e Pietro. Accostare quest’ultimo al nostro San Pietro innesca un “cortocircuito caravaggesco”, ampliato dal confronto con opere come il San Girolamo Canesso, confermandone la datazione tra 1605 e 1610, quando anche Reni fu affascinato da Caravaggio. Il Sant’Andrea ha un impianto teatrale e diretto, tanto che si è detto che “non stonerebbe in un quadro di Gentileschi”. L’atmosfera è carica di pathos: Andrea malinconico, Pietro disperato, volti segnati dalla luce, in un momento simbolico che unisce vocazione, tradimento e fragilità umana. La composizione è sintetica e potente: Andrea si appoggia alla croce, accanto a due pesci argentei, simbolo della sua vita passata da pescatore. Pietro, nel momento del rinnegamento, si copre la testa per non sentire il canto del gallo, come Gesù aveva profetizzato. Le opere, simili per stile, dimensioni e intento, potrebbero appartenere a una serie di apostoli. Le misure compatibili (nonostante alcune riduzioni) rafforzano questa ipotesi, che un restauro potrebbe confermare. Un inventario del 1670 menziona una serie con i quattro Evangelisti tra i beni del conte Pepoli. Dello stesso soggetto esistono altre mezze figure, come i San Matteo con angelo di Washington e Palazzo Venezia: quest’ultimo più classico, il primo più vicino allo stile dei nostri apostoli, con sfaldamenti materici simili a quelli di Andrea Sacchi. Presumibilmente, il dipinto degli Uffizi fu donato nel 1699 al gran principe Ferdinando de’ Medici dal bolognese Belluzzi. Il San Pietro compare anche nell’inventario del cardinale Silvio Valenti Gonzaga del 1763, dove si cita un “S. Pietro in mezza figura, in tela, di Simon da Pesaro”. Il soggetto è presente anche in una serie di disegni che fanno pensare a composizioni più affollate, rielaborate da Lorenzo Pasinelli, allievo ed erede della bottega di Cantarini. La scoperta di un altro dipinto con lo stesso soggetto, ma a figura intera e oggi in una collezione londinese, mostra come l’artista abbia proposto due varianti dello stesso tema in tempi ravvicinati. La mostra consente confronti con altre figure di santi e filosofi, rivelando la centralità di questi soggetti nella produzione di Cantarini, con esiti cronologicamente e stilisticamente diversi, ma sempre con forte tensione espressiva e personale. Nonostante Venturi avesse giudicato il San Pietro degli Uffizi un’opera debole, priva di “concetti elevati”, sia il Sant’Andrea sia il Rinnegamento di Pietro dimostrano il contrario: sono testimonianze della poetica matura di Cantarini, capace di fondere tensione classica, pathos emozionale e naturalismo innovativo. Un artista che contribuì a trasformare l’arte bolognese e italiana nel secondo Seicento.
4.2. San Giuseppe penitente
Il San Giuseppe penitente, eseguito da Simone Cantarini tra il 1644 e il 1646, è una delle opere più intense e significative dell’ultima fase della sua produzione. Conservato oggi presso i Musei Civici di Palazzo Mosca a Pesaro (inv. 4001), il dipinto fu realizzato su commissione della congregazione dell’Oratorio della stessa città, a testimonianza dello stretto legame che Cantarini mantenne con il suo luogo d’origine anche nei momenti di maggiore successo artistico. L’opera era concepita in pendant con una Maddalena penitente, anch’essa destinata alla meditazione e alla devozione privata, secondo le finalità spirituali proprie della tradizione oratoriana. In questo San Giuseppe, Cantarini abbandona del tutto la rigidità ieratica delle raffigurazioni più convenzionali del santo, scegliendo invece di rappresentarlo in un momento di raccoglimento interiore, inginocchiato in preghiera, con il volto segnato da una profonda emozione. Lo stile dell’opera testimonia un punto di sintesi avanzato nel linguaggio dell’artista, in cui si intrecciano diverse influenze in maniera armonica e originale. Rimane evidente la formazione bolognese, soprattutto nell’eleganza e nella compostezza delle forme ispirate a Guido Reni, ma si avverte anche una crescente apertura verso soluzioni più naturalistiche. In particolare, il dialogo con la pittura di Giovan Francesco Guerrieri – artista attivo nelle Marche e rappresentante di un naturalismo più drammatico e concreto – arricchisce la tela di un pathos emotivo più immediato, che si sposa con le suggestioni provenienti dal recente soggiorno romano. In quest'opera, dunque, Cantarini dimostra non solo la piena maturazione del suo stile, ma anche una profonda capacità di adattare i modelli appresi alle esigenze spirituali e narrative della committenza. Il San Giuseppe penitente si impone così come un capolavoro di equilibrio tra raffinatezza formale, introspezione psicologica e forza devozionale.
4.3. Testa di vecchio (San Giuseppe?)
La Testa di vecchio – forse identificabile con San Giuseppe – è un’intensa prova pittorica realizzata da Guido Reni tra il 1638 e il 1640 circa, oggi conservata presso la Galleria Corsini delle Gallerie Nazionali di Arte Antica a Roma (inv. 222). L’opera costituisce un esempio eloquente dell’ultima maniera del maestro bolognese, caratterizzata da un’estrema rarefazione formale e spirituale. A partire dal 1635, infatti, Reni si allontana progressivamente dalla pienezza plastica delle sue opere precedenti per abbracciare uno stile sempre più etereo e immateriale, in cui le figure sembrano sospese in una dimensione quasi trascendente. In questa tela, l’essenzialità della gamma cromatica – giocata su toni neutri, argentei, terrosi – e l’adozione consapevole del “non finito” concorrono a creare un’atmosfera di assoluta introspezione. Lo sguardo del vecchio, rivolto verso l’alto, unito alla luce che accarezza la carne del volto e della barba, suggerisce un sentimento di pacata elevazione spirituale, in cui l’umanità del soggetto si sublima in una forma di silenziosa contemplazione. La tela ebbe grande fortuna collezionistica e fu persino attribuita, in un inventario settecentesco della collezione Corsini, a “Simon da Pesaro” – ossia Simone Cantarini. Questo dato non sorprende: la vicinanza stilistica tra quest’opera e alcuni dei più alti esempi del giovane pittore marchigiano rivela quanto il riferimento a Reni, in questa sua ultima fase stilistica, sia stato determinante per la formazione di Cantarini. La lezione reniana, fatta di grazia astratta e intensa spiritualità, sarebbe stata da lui filtrata e reinterpretata alla luce di un naturalismo più marcato, ma mai privo di quella tensione lirica che proprio Reni seppe portare all’apice.
4.4. San Matteo e l’angelo
Il San Matteo e l’angelo, eseguito da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1640 circa, è una delle opere più rappresentative della maturazione stilistica dell’artista marchigiano durante gli anni decisivi della sua formazione bolognese. Oggi conservata presso il VIVE – Vittoriano e Palazzo Venezia a Roma (inv. 904), la tela proviene dalla prestigiosa quadreria del cardinale Tommaso Ruffo, uno dei membri più eminenti della nobile famiglia Ruffo di Motta Bagnara. Nel 1919, insieme ad altre opere della stessa collezione, il dipinto entrò a far parte del nucleo originario del neonato Museo Nazionale del Palazzo di Venezia. L’opera colpisce per la sua intensa carica emotiva e per il dialogo spirituale e psicologico che si instaura tra i due protagonisti della scena: l’evangelista Matteo e l’angelo ispiratore. Lo scambio di sguardi, il gesto guidato della mano, la morbida corporeità dell’angelo e il volto pensoso e umano dell’apostolo rivelano una profonda sensibilità narrativa, capace di trasformare un episodio sacro in una scena di grande intimità e verità interiore. La pittura di Cantarini in questo caso si distingue con decisione per la sua individualità stilistica. Pur formandosi nell’orbita di Guido Reni, l’artista manifesta già in questa fase un proprio linguaggio, più dinamico e naturale, in cui la compostezza formale si fonde con una resa affettiva autentica. La gamma cromatica è calda e avvolgente, mentre la luce modella i volumi con dolcezza, esaltando i dettagli dei volti e dei panneggi senza mai indulgere nell’eccesso decorativo. Questo San Matteo e l’angelo rappresenta non solo un momento alto della produzione religiosa di Cantarini, ma anche una prova della sua capacità di coniugare spiritualità e immediatezza narrativa, all’interno di un linguaggio pittorico che, pur debitore della scuola bolognese, anticipa la sua piena autonomia espressiva.
4.5. San Girolamo in meditazione
Non si conosce la provenienza antica del dipinto, reso noto da Andrea Emiliani nel 1997 quando si trovava in una collezione bolognese. Conservato in ottime condizioni, è stato restaurato nel 2020; un pentimento sulla mano destra è stato lievemente velato. San Girolamo è raffigurato a mezzobusto, proteso in avanti in una grotta, mentre solleva un teschio con entrambe le mani, poggiando i gomiti su una fessura rocciosa. Il formato quasi quadrato amplia il dialogo tra santo e simbolo di morte. Il volto è segnato non dalla penitenza, ma da una profonda consapevolezza. La luce, proveniente dall’alto, colpisce il corpo nudo, vigoroso e avvolto in un mantello rosso, che esalta l’incarnato. La resa fluida della stoffa, la fisionomia e la plasticità rimandano chiaramente alla mano di Cantarini, così come il trattamento realistico dei capelli e della pelle. L’opera mostra affinità con modelli di Guido Reni, in particolare con un San Girolamo della National Gallery di Londra, forse di origine Barberini. Elementi simili – barba folta, chioma riccia – si ritrovano anche nel San Matteo e l’angelo del Vaticano e in due teste di Guido esposte in mostra. Il chiaroscuro accentuato e il volto segnato dal sole rivelano influenze del naturalismo post-caravaggesco. La natura morta con libri ricorda Caravaggio, grande innovatore nell’iconografia di San Girolamo. Cantarini sembra conoscere i suoi modelli, come il San Girolamo di Montserrat, dove il teschio è isolato, o il San Francesco in meditazione di Carpineto Romano, che mostra un gesto analogo. Cantarini dipinse spesso San Girolamo, figura solitaria e sapiente, proponendone più versioni. Il quadro in oggetto è una variazione di alta qualità del San Girolamo che legge conservato a Bologna, più verticale e con paesaggio sullo sfondo. In quella versione il santo è intento nella lettura, riflettendo sulla traduzione dei testi sacri. Un’iconografia più simile a quella qui trattata si trova nei San Girolamo in meditazione di collezione privata, qui esposti per la prima volta: due versioni speculari con santo e teschio a confronto. L’opera viene considerata una variante contemporanea del San Girolamo bolognese, collocabile alla fine del primo periodo bolognese di Cantarini (1637–1639), nella fase di “coesistenza competitiva” con Reni. Tuttavia, i forti contrasti chiaroscurali e la particolare iconografia potrebbero suggerire una datazione intorno al 1640, durante gli anni romani dell’artista, in cui la lezione di Reni si fonde con influenze caravaggesche.
4.6. San Girolamo assorto nella lettura
Il quadro può essere collocato tra il 1637 e il 1639, nel momento di «coesistenza competitiva» di Cantarini con Reni, al tempo della rottura tra i due artisti. L’opera fu realizzata sulla base di un accurato studio grafico conservato presso la Biblioteca nazionale di Rio de Janeiro, in cui ritroviamo invariati la mezza figura seduta e alcuni dettagli di contesto (la quinta paesaggistica, i blocchi di pietre squadrate sul fondo e il teschio a sostegno del cartiglio). In ragione dell’alta qualità del dipinto e della sua collocazione pubblica (fin dal XVIII secolo, dopo il lascito di Carlo Salaroli, era esposto nella sede del Senato bolognese), il quadro divenne uno dei più citati del Pesarese. Nel 1797 venne trasferito all’Istituto delle Scienze, dove furono raccolte tutte le opere provenienti dalle soppressioni che poi sarebbero confluite nelle collezioni della Pinacoteca Nazionale di Bologna, istituita nel 1808 come Quadreria dell’Accademia di Belle Arti. Il 9 novembre 1917, su richiesta di Corrado Ricci, direttore generale delle antichità e belle arti, il dipinto lasciava la pinacoteca felsinea per giungere, in deposito, alla Galleria Nazionale delle Marche, dopo che il Ministero dell’istruzione pubblica aveva rifiutato al direttore Luigi Serra l’acquisto, per la stessa Galleria, di un altro San Girolamo di Cantarini in vendita presso la galleria Addeo di Roma. Poco dopo essere apparsa nel catalogo del museo urbinate di Paolo Dal Poggetto, la tela è rientrata a Bologna. Di un San Girolamo di Cantarini ci parla Malvasia in relazione a una burla compiuta dal pittore nell’ultimo periodo di permanenza nella bottega di Reni. Il Pesarese aveva abbozzato la figura in poche ore e di nascosto e l’aveva lasciata ai giudizi dei colleghi che, credendola opera del maestro, non risparmiarono lodi. Il fatto testimonia non solo il carattere spregiudicato e superbo del marchigiano, ma anche che il soggetto rientrava tra quelli di facile esecuzione del pittore, qualificati da una mirabile perizia tecnica e da una penetrante sensibilità emotiva. Per di più le figure di vecchio di Cantarini ripetevano spesso un simile tipo fisionomico, in quanto l’artista, come ricorda ancora Malvasia, aveva plasmato una testa da utilizzare come modello per dipingere personaggi anziani dell’antico e nuovo Testamento. Simone derivò «la classica misura» della figura dai «venerabili personaggi» che Reni aveva raffigurato in composizioni di ampio respiro, come il padre della Chiesa posto in primo piano nella Disputa sull’Immacolata Concezione dell’Ermitage, riproposto dall’artista anche nel Lot e le figlie.
4.7. San Girolamo in meditazione davanti al Crocifisso
Il San Girolamo in meditazione davanti al Crocifisso, dipinto da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1638, è un’intensa testimonianza del legame profondo che l’artista mantenne con la tradizione pittorica del suo maestro, Guido Reni, soprattutto nella sua fase giovanile. L’opera è oggi conservata nella Collezione Koelliker a Milano, ed è visibile grazie alla cortese disponibilità di BKV Fine Art. La scena, di forte impatto emotivo e meditativo, ritrae San Girolamo immerso in preghiera, inginocchiato di fronte al Crocifisso, circondato da alcuni simboli iconografici tradizionali della sua figura: un teschio, rivolto verso lo spettatore come memento mori, poggia su una pila di libri che alludono al suo ruolo di dottore della Chiesa e autore della Vulgata. L’atmosfera è silenziosa, sospesa, carica di raccoglimento interiore e spirituale, resa ancora più intensa dalla luce che scolpisce la figura del santo, esaltandone la muscolatura e la tensione fisica, ma anche la fragilità umana. L’impostazione compositiva della figura è un chiaro omaggio a Guido Reni: essa riprende infatti la posa dell’apostolo Matteo raffigurato dal maestro nella pala d’altare dipinta per la chiesa di Sant’Agostino a Genova nel 1617. Questo esplicito riferimento, presente anche in una seconda redazione autografa dell’opera, conferma l’interesse di Cantarini per il Reni più giovane e vigoroso, il cui stile armonioso e devoto era per lui fonte di studio e ispirazione. Il dipinto si configura dunque non solo come esercizio d’interpretazione di un modello ammirato, ma anche come terreno fertile per l’elaborazione di un linguaggio personale, che unisce la compostezza formale del classicismo bolognese alla ricerca di una verità emotiva più diretta, segno distintivo della maturazione autonoma di Cantarini. In questa meditazione di San Girolamo, la tensione tra imitazione e innovazione si risolve in un’immagine di grande intensità spirituale e pittorica.
4.8. San Girolamo che scrive
Il San Girolamo che scrive, dipinto da Bartolomeo Manfredi tra il 1616 e il 1620, rappresenta una delle prove più significative della pittura caravaggesca maturo-seicentesca, e costituisce una recente ma preziosa acquisizione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, oggi esposta a Palazzo Barberini (inv. 4684). Quest’opera offre un’aggiunta rilevante al catalogo del pittore lombardo, attivo a Roma e riconosciuto come uno dei più autorevoli seguaci diretti di Caravaggio, tanto da essere considerato il principale esponente del cosiddetto “caravaggismo classico”. La tela raffigura San Girolamo, uno dei santi più rappresentati nella pittura devozionale del XVII secolo, colto in un momento di scrittura meditativa, probabilmente durante la traduzione della Vulgata, la Bibbia in latino. Il santo, rappresentato a mezza figura, è immerso in un’oscurità quasi totale, da cui emerge grazie a un fascio di luce intensa e radente che ne scolpisce il volto, le mani e la pagina su cui scrive. Questa resa luministica, insieme alla presenza fisica e terrena del santo, è tipica del naturalismo drammatico inaugurato da Caravaggio e rielaborato da Manfredi con maggiore equilibrio e compostezza. L’opera si inserisce in un filone iconografico molto frequentato da Manfredi, che dedicò più volte il suo sguardo al santo eremita, in linea con l’interesse condiviso da altri pittori del tempo, come Jusepe de Ribera. I suoi San Girolamo, fortemente umanizzati, divennero veri e propri modelli per generazioni di artisti, tra cui Simone Cantarini, che ne trasse ispirazione per alcuni dei dipinti presenti in mostra. L’influenza di Manfredi – insieme a quella diretta di Caravaggio – si riflette infatti nel modo in cui Cantarini affronta la figura del santo: non più solo simbolo della sapienza cristiana, ma uomo immerso nella penombra della meditazione, trasfigurato dalla luce, reso vivo e vulnerabile nella sua ricerca spirituale. Questo San Girolamo che scrive si impone quindi non solo come un capolavoro del caravaggismo romano, ma anche come un’opera chiave per comprendere il dialogo tra realismo e spiritualità che attraversa la pittura italiana della prima metà del Seicento.
4.9. San Girolamo
Il San Girolamo di Guido Reni, realizzato tra il 1605 e il 1610 e oggi custodito presso la Galerie Canesso di Parigi, è un dipinto che riveste un’importanza particolare per la ricostruzione del percorso giovanile del maestro bolognese. L’opera, già nota attraverso una stampa seicentesca che ne attribuiva con certezza la paternità a Reni, si configura come una significativa aggiunta al suo catalogo, riconducibile agli anni del primo soggiorno romano, quando l’artista stava definendo con maggiore chiarezza la propria identità stilistica. In questo periodo, Reni affronta un processo di progressivo allontanamento dal crudo naturalismo caravaggesco che, almeno inizialmente, aveva esercitato un notevole fascino su di lui. Il San Girolamo ne testimonia la transizione: se da un lato conserva una certa solidità corporea e una forte presenza fisica, tipica della pittura di realtà, dall’altro introduce già quel senso di compostezza ideale e spirituale che diventerà il tratto distintivo della sua piena maturità. Il santo, rappresentato in meditazione, mostra una muscolatura misurata, ben modellata dalla luce, ma priva di ostentazione drammatica. La sua espressione è assorta, pacata, e lo sguardo rivolto al Crocifisso suggerisce una dimensione interiore più lirica che teatrale. La gamma cromatica, contenuta e armoniosa, contribuisce a rafforzare questa atmosfera di nobile raccoglimento. L’opera si inserisce dunque in quella fase di “purificazione” del linguaggio reniano, durante la quale il pittore cerca di restituire la realtà non secondo i canoni dell’osservazione brutale, ma attraverso una lente idealizzante che mira all’equilibrio, alla grazia e alla bellezza spirituale. Questo San Girolamo è, in tal senso, un documento eloquente dell’evoluzione intellettuale e stilistica di Guido Reni, maestro che influenzerà profondamente tutta la pittura del Seicento, non da ultimo quella di Simone Cantarini, suo allievo prediletto.
5. L'Atelier dell'artista: finito e non finito, ombre e luci, ideale e naturale
Queste variate coppie di dipinti permettono di entrare nel processo creativo di Simone Cantarini, in linea con il temperamento inquieto del pittore e con le diversificate richieste del mercato artistico del tempo. Da un lato versioni perfettamente finite, chiare e luminose, dall’altro prove più introspettive e apparentemente incompiute, spesso condotte con toni bruni e terrosi. Il pittore, infatti, era solito dipingere di una stessa composizione potenti versioni in chiaro e ulteriori redazioni qualificate da un contrapposto registro stilistico. L’esecuzione di questi doppi è una costante nel percorso di Simone, una vera e propria prassi che non corrisponde a un evolversi lineare del suo linguaggio. È questo il caso dei due mirabili “dittici” dedicati alle meditazioni di san Girolamo e dei due Lot e le figlie qui esposti insieme per la prima volta. In questi ultimi, la figura del patriarca biblico è ripresa dal naturale utilizzando lo stesso modello che posò per i due San Girolamo in mostra. Tali opere illustrano in modo eclatante il duplice approccio espressivo e poetico di Cantarini. La redazione del Lot oggi a Rivoli, di dimensioni lievemente ridotte, è distinta da numerosi pentimenti lasciati a vista, quasi a voler trasferire sulla tela la varietà di proposte e la mobilità sperimentale proprie dei suoi disegni. Si tratta di un "non finito" calibratissimo e senza carenze, che sfuma nell’indistinto di una materia filante oltre la veste rosacea della donna in primo piano, dipinta con maggiore definizione. Tali ideali coppie costituiscono la risposta più alta di Cantarini alla pittura di Guido Reni nelle sue diverse fasi e inflessioni: da quella più caravaggesca in apertura di secolo, a quella più libera e rarefatta dei suoi ultimi anni (1635-1642). Il Pesarese portò avanti questa ricerca animato da un desiderio di perfezione e completezza, e, al contempo, da un impeto barocco pervaso da una sottile malinconia: quasi una dichiarazione esistenziale che molto si avvicina al nostro sentire “moderno”.
5.1. Due versioni di Lot e le figlie
Sullo sfondo baluginoso dell’incendio di Sodoma, le giovani figlie del patriarca Lot stanno per consumare uno stupro incestuoso, inducendo il genitore all’ebbrezza al fine di assicurare la discendenza della loro stirpe. Le due tele, esposte insieme per la prima volta, documentano la varietà dei registri espressivi di Cantarini. Il dipinto in collezione privata modenese, proveniente dalla quadreria dei marchesi Rangoni, risale al 1635-1638 ed è un esempio finito, realizzato nel periodo di maggiore aderenza allo stile di Guido Reni, prima dell’Ercole e Iole. La versione Rangoni, compatta nelle forme, si contrappone a quella in Piemonte, di dimensioni più piccole e caratterizzata da un’incompiutezza calibrata, con pentimenti visibili, come se l’artista avesse voluto trasferire sulla tela la varietà dei suoi disegni a sanguigna. Questo "non finito" è privo di carenze nel racconto, ma senza rifiniture, creando un paesaggio di strati che contiene il modellato delle idee. Il cromatismo pastello ha fatto pensare che l’opera fosse di Guido Reni, prima di essere attribuita a Cantarini da Longhi e Voss nel 1954. L’analisi di Luciano Cuppini, che ha ritenuto il dipinto di Reni, si adatta alle intenzioni pittoriche di Cantarini, con colori che sembrano vapori e forme sfumate in una pennellata liquida. Il successo sta nel gioco delle trasparenze e nell’ombra che scorpora le forme. Cantarini doveva conoscere anche la riflessione di Reni sullo stesso soggetto, come testimonia Charles-Nicolas Cochin, che nel suo Voyage d’Italie descrisse una copia del "Lot e le figlie" di Guido eseguita da Simone. Il processo inventivo di Cantarini sul tema è documentato in studi grafici che presentano varie disposizioni dei personaggi, conservati in diverse raccolte. La stessa iconografia ricorre in altre opere del pittore, alcune ancora non identificate, come un "Lot con le figlie" documentato nel 1776 a Venezia e nel 1777 a Bologna, nonché un’opera del 1738 ancora presso gli eredi dell’artista.
5.2. Due versioni di San Girolamo in meditazione
Nel quarto decennio del Seicento, Cantarini celebrò san Girolamo come un filosofo antico, figura ascetica e caravaggesca, aggiungendo carne e sangue ai modelli appresi nell'atelier bolognese di Guido Reni. Il santo non è solo un umanista piegato dalle fatiche bibliche, ma un pensatore penitente che affronta la morte, riflettendo sulla vanità del mondo, come in un'opera documentata a Roma nel 1713. Cantarini lo rappresenta in una pausa meditativa, concentrato sul teschio posato su un libro, in una geometria precisa di forme e movimenti. Il gesto di Girolamo, antitetico ma affine a quello dell’uomo malinconico, è concluso dalla veste purpurea che richiama il suo volto e il teschio, simile a quello di Amleto, sfidando la morte. Un altro dipinto di Cantarini, esposto per la prima volta in questa mostra, è una seconda versione della stessa composizione. Non è chiaro quale delle due opere sia precedente, ma quella presentata qui è meglio conservata e mostra un San Girolamo con un volto più definito e un crocifisso più rifilato rispetto alla versione gemella. La differenza maggiore riguarda la morfologia del panneggio e la gamma cromatica: la versione qui presentata è più scura, con toni aranciati e illuminazione fioca, mentre l’altra è più luminosa e cristallina. Pulini ha datato la versione in collezione inglese al 1637, durante il periodo della rottura tra Cantarini e Reni. È anche possibile che una delle due opere corrisponda al "San Girolamo con un teschio" documentato a Pesaro nel 1713. La pratica di Cantarini di eseguire versioni chiare e scure di uno stesso soggetto era una costante nel suo percorso artistico, non necessariamente evolutivo, ma in parte una risposta alle richieste della committenza e a una scelta poetica personale. Cantarini alternava scene di luce diurna a composizioni più oscure, come dimostrato anche in altre sue opere, come la Sacra Famiglia Colonna e il San Francesco in contemplazione di Cristo morto. La versione scura del "San Girolamo" (circa 1640) emerge dal buio come un monocromo, mostrando la capacità dell’artista di modellare la forma anche con colori crudi. Queste opere evidenziano la sfida di Cantarini al naturalismo classicista di Reni, esplorando nuove possibilità espressive, alternando registri stilistici e utilizzando le tenebre per dare significato alla luce.
5.3. Due versioni di San Girolamo in lettura nel deserto
I due dipinti intitolati San Girolamo in lettura nel deserto, realizzati da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1640, rappresentano una coppia di opere che permettono di esplorare la modalità di lavoro dell'artista pesarese, e, al contempo, di comprendere le sue risposte alle richieste del mercato artistico dell'epoca. Le due versioni, una conservata nella Collezione Paride e M. Luisa Gasparini di Modena e l’altra in una collezione privata di Pesaro, offrono una preziosa testimonianza della sua evoluzione stilistica e del suo temperamento inquieto. Nel primo dipinto, quello della collezione Gasparini, la figura di San Girolamo, assorto nella lettura dei testi sacri nel deserto, appare raffigurata con un’illuminazione chiara e armoniosa, caratterizzata da una resa elegante e bilanciata che rispecchia la tradizione rinascimentale. La luce che avvolge il santo, insieme alla morbidezza cromatica e alla compostezza formale, rende questa versione un esempio di “opera finita”, dove ogni dettaglio è curato con precisione e serenità. Al contrario, nella seconda versione, quella conservata nella collezione privata pesarese, il dipinto si presenta con una qualità più grezza e inquietante. L’illuminazione è più scura, con toni terrosi e bruni che sembrano spezzare l'armonia, lasciando trasparire una tensione interiore più forte. In questa versione “non finita”, Cantarini sembra voler comunicare un’introspezione profonda e tormentata, quasi una dichiarazione esistenziale. La bellezza di questa opera risiede proprio nella sua incompiutezza, che, lontana da un perfetto equilibrio visivo, suggerisce una riflessione più intima e personale, in sintonia con l’animo dell'artista. Questa coppia di dipinti evidenzia così il contrasto tra due approcci distinti ma complementari, dove Cantarini gioca con il concetto di “completamento” non solo come tecnica, ma come riflesso di stati d'animo e di ricerca artistica interiore.
6. Classicismo e Naturalismo: variazioni sul tema
Le diverse tele non finite dell’artista e il ricorrere di pentimenti, di variazioni sul tema e di ”doppi” dal cromatismo differenziato – emblematici i casi delle Sacre Famiglie qui esposte – ci parlano di una prassi operativa fervida e passionale. Simone Cantarini, del resto, era un infaticabile ideatore di invenzioni (di lui possediamo numerose incisioni e centinaia di disegni), nonché un campione di rapidità: decine di pale d’altare e molti quadri da stanza, eseguiti in un arco temporale relativamente ridotto. Tra il 1637 e il 1640, al momento della realizzazione dell’inedito San Giovanni Battista a figura intera, il pittore aveva negli occhi il dipinto di Valentin de Boulogne esposto in mostra e l’importante prototipo di Guido Reni oggi alla Dulwich Picture Gallery (1636-1637). È in opere come queste che l’allievo sfidava il maestro, proponendo una felice alternativa al naturalismo depotenziato di stampo classicista e al più immediato approccio al vero di ascendenza caravaggesca. Mentre Reni correggeva la natura nuda e cruda con l’idea, Cantarini indagava nuove possibilità espressive, compiacendosi del sentimento e dell’alternanza dei registri stilistici. Fondendo naturalismo e classicismo – categorie apparentemente inconciliabili dell’arte seicentesca – il Pesarese diede vita a un nuovo linguaggio moderno che valeva molto di più della somma delle singole parti. Tuttavia, per arrivare a superare Guido, Simone doveva prima essere in grado di imitarlo, anche per ragioni commerciali. A questo proposito, risulta illuminante un aneddoto riportato da Carlo Cesare Malvasia, che puntò l’attenzione su una Madonnina dipinta da Cantarini in tutto simile all’inedita opera qui esposta: «volendo il Signor Guido per un battezzo regalare, fece all’istesso Simone fare una picciol Madonna in rame che alquanto ritoccò e che questa, essendo di là in poco tempo venduta per di Guido, fu pagata quaranta ducatoni, onde il Pesarese s’instaffò [si arrabbiò] vedendo che le sue cose andavano per di Guido. E cominciò a pretendere i prezzi di Guido...».
6.1. Vergine orante
Per documentare l’ampia produzione in piccolo praticata da Cantarini per la devozione privata e per il mercato, su tele di formato ridotto o – come in questo caso – su preziose lastre di rame, si è scelto di esporre questa inedita testa di Vergine orante, dipinta con l’ausilio di accurati studi grafici eseguiti con il modello in posa. Pur nelle piccole dimensioni, il quadro esibisce sensibilità d’invenzione e un’elevata qualità esecutiva, accompagnate da quella particolare maniera tutta «di tocchi» che, secondo la felice definizione di Carlo Cesare Malvasia, aveva reso riconoscibile il linguaggio del pittore anche agli occhi dei suoi contemporanei. La Madonnina, databile all’ultima fase della breve carriera di Simone, presenta affinità fisionomiche con la Maddalena penitente dei Musei Civici di Pesaro, con l’Agar della Cassa di Risparmio di Fano e – tra i diversi possibili confronti con altri volti muliebri dipinti dall’artista – con la Vergine della Sacra Famiglia Colonna. Il supporto in rame, come nel caso della superba Fuga in Egitto esposta in mostra, consentì al pittore una maggiore definizione nella resa del volto di Maria, miniato in punta di pennello recuperando un fortunato schema di tradizione baroccesca. L’opera recupera i modi di Reni nella definizione del panneggio rosaceo della veste della Vergine, costituendo un importante anello di congiunzione con diverse prove di analogo soggetto realizzate da Flaminio Torri, il migliore allievo del Pesarese insieme a Lorenzo Pasinelli, come la Madonna in preghiera della Galleria Pallavicini, acutamente restituita al pittore bolognese da Federico Zeri. Sebbene privi dell’indicazione delle misure, si segnalano «una Madonna del Pesarese cornisata», documentata nel 1661 a Bologna in casa dello speziale Matteo Macchiavelli, e il «quadro d’una Madonna con cornice dorata bellissima del Pesarese», attestato a Roma già nel 1644 nel palazzo del cardinale Lelio Falconieri.
6.2. La Sacra Famiglia come Santissima Trinità
La Sacra Famiglia come Santissima Trinità di Simone Cantarini, realizzata tra il 1642 e il 1645, è un’opera di profonda spiritualità, commissionata per la devozione privata e oggi conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, in comodato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Il dipinto presenta una concezione iconografica unica, che fonde armoniosamente la Sacra Famiglia con il mistero della Santissima Trinità, dando vita a una riflessione teologica e visiva che supera i tradizionali canoni religiosi. Al centro della composizione si trova il Bambino Gesù, simbolo dell’incarnazione divina, attorniato dalla figura di san Giuseppe e della Vergine Maria. Sopra di loro, in un’area più elevata, compaiono le figure della Trinità: Dio Padre, rappresentato in un gesto benedicente, e la colomba dello Spirito Santo, che completa la scena. Questa disposizione visiva crea un legame tra il divino e l’umano, sottolineando il ruolo di san Giuseppe come padre spirituale e terreno, simbolo della virtù e della santità che lo legano al mistero trinitario La scelta iconografica di Cantarini si ispira in particolare alle riflessioni di san Francesco di Sales sulle virtù di san Giuseppe, che vengono rappresentate come una sorta di riflesso della Trinità, sia spirituale che terrena. La pittura, dunque, non è solo un atto devozionale, ma un’indagine visiva che unisce la sfera divina a quella umana, suggerendo una simbiosi tra il sacro e il quotidiano. Nel dipinto di Cantarini, come in molte altre opere dell'artista, spiritualità e umanità si intrecciano in un’armonia che non è solo visiva, ma anche profondamente riflessiva. La dolcezza dei volti e la serenità dei gesti dei personaggi suggeriscono una visione della fede che abbraccia l’umanità nella sua pienezza, senza separare la divinità dalla vita quotidiana. Cantarini riesce così a trasmettere un messaggio di unità tra l'umano e il divino, offrendo una pittura che non è solo un oggetto di devozione, ma anche un invito alla meditazione profonda sul mistero della Trinità.
6.3. Sacra Famiglia con Santa Caterina da Siena
Sacra Famiglia con santa Caterina da Siena di Simone Cantarini, realizzata tra il 1632 e il 1635, è un'opera che riflette l'evoluzione stilistica dell'artista pesarese nei suoi primi anni di attività. Attualmente conservata nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, in comodato dalla Collezione Banca Intesa Sanpaolo, la tela rappresenta una delle varianti più significative del tema della Sacra Famiglia, un soggetto che Cantarini riprenderà frequentemente nel corso della sua carriera, esplorando di volta in volta nuove sfumature di significato e composizione. In questa particolare versione, la scena sacra si arricchisce della presenza di santa Caterina da Siena, che, sebbene talvolta confusa con la figura di Marta, è chiaramente identificabile grazie al drago ai suoi piedi e all’abito domenicano che la contraddistingue. La santa si trova inginocchiata accanto alla Sacra Famiglia, un gesto che enfatizza il suo ruolo di devota intercessora tra il divino e l’umano. Al centro della composizione, san Giuseppe è ritratto con occhiali e un libro, richiamando la figura del ‘filosofo’, un elemento che aggiunge una dimensione intellettuale al quadro e suggerisce una riflessione più profonda sulla natura del santo come custode della famiglia e della sapienza divina. La sua raffigurazione in questo modo, arricchita di dettagli simbolici, sottolinea la fusione tra il sacro e il razionale, elementi che Cantarini integra con naturalezza. Il dipinto si inserisce nel periodo giovanile dell'artista, che in quegli anni stava perfezionando il proprio stile. La sua attenzione ai dettagli e il ricorso a iconografie precise, come l’inserimento di santa Caterina e la caratterizzazione di san Giuseppe, testimoniano l'influenza delle correnti artistiche del tempo, pur mantenendo un’impronta personale e innovativa. Questo lavoro rappresenta un esempio di come Cantarini fosse in grado di unire la tradizione della pittura religiosa con l’introduzione di elementi nuovi e distintivi, in un processo che lo avrebbe portato a diventare uno degli artisti più rappresentativi del suo tempo.
6.4. Sacra Famiglia con San Giovannino
Sacra Famiglia con San Giovannino, realizzata da Simone Cantarini tra il 1635 e il 1640, è un’opera che riflette una delle fasi centrali della carriera dell'artista, oggi conservata presso la Galleria Borghese di Roma. Il dipinto si distingue per la sua composizione serena e silenziosa, che trasmette una sensazione di tranquillità e intimità, caratteristiche che caratterizzano la pittura di Cantarini in questo periodo. In questa Sacra Famiglia, la scena è arricchita dalla presenza di San Giovannino, il bambino San Giovanni Battista, il cui sguardo rivolto verso Gesù Bambino aggiunge un elemento di profondità spirituale e simbolica. L'invenzione pittorica di Cantarini si distingue per la sua sobrietà e compostezza, qualità che si riflettono nella raffinatezza dei dettagli e nell’armonia complessiva della composizione. Quest'opera fa parte di un periodo particolarmente fecondo per l'artista, in cui si affermò come uno dei protagonisti della scena artistica del suo tempo. Oltre alla pittura, Cantarini si distinse anche per la sua abilità nell'incisione, e infatti da quest'opera deriva una raffinata stampa, che è inclusa nel vasto catalogo calcografico dell’artista. Il successo che ottenne con queste acqueforti contribuì a consolidare la sua reputazione e a renderlo uno degli artisti più ammirati della sua generazione. La Sacra Famiglia con San Giovannino non è solo un esempio della maestria pittorica di Cantarini, ma anche una testimonianza del suo equilibrio tra tecnica, spiritualità e capacità innovativa, che ne garantirono un posto di rilievo nel panorama artistico del Seicento.
6.5. Due versioni di Sacra Famiglia
Più che simili, per formato e invenzione, i due dipinti si distinguono sul piano compositivo per alcuni dettagli, come la mano sinistra di san Giuseppe assente nell’esemplare Corsini), la rosa sorretta dal Bambin Gesù e la Vergine con il capo incorniciato da un’aureola o luce. Inoltre, il fondale varia: uno presenta un ambiente luminoso en plein air con una palma, l’altro un interno domestico con tendaggio cupo. La tela Corsini ha una lieve riduzione di formato, visibile nella radiografia, avvenuta tra la fine del XVIII e l’inizio dell’Ottocento. La principale differenza tra le due opere è l’intenzione pittorica e cromatica. Il dipinto Colonna è caratterizzato da forme nitide e colori chiari, con l’uso di pigmenti come il lapislazzulo, mentre il Corsini ha toni più poveri e terrosi, con una materia pittorica sottile e impasto sfrangiato. Questo approccio, simile a uno schizzo di bottega, non implica che la versione Corsini sia più precoce, anche se entrambi i dipinti sono riferiti alla fase matura dell’artista (1640-1642 circa), sulla base dello stile e della provenienza romana. Cantarini interpreta magistralmente i concetti di naturalismo e classicismo, di finito e non finito, di disegno e colore, con due opere gemelle che mostrano approcci pittorici opposti. Un piccolo studio di testa su tavola, conservato nella collezione Ducrot, documenta il primo momento della prassi operativa dell’artista. Simone partiva da un accurato studio dal naturale, adattandolo in forme idealizzate per la Vergine, secondo la tradizione accademica bolognese. Questo studio, realizzato rapidamente, serviva come guida per la bottega e come modello per future composizioni.
6.6. David contempla la testa di Golia
David contempla la testa di Golia, realizzato da Guido Reni tra il 1639 e il 1640, è un’opera che segna una delle ultime riflessioni dell’artista sul celebre tema biblico. Il dipinto, oggi conservato nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino grazie alla donazione di Paolo Volponi nel 2003, rappresenta una delle versioni finali del soggetto, che Reni aveva trattato più volte nel corso della sua carriera. In quest'opera, David osserva la testa decapitata di Golia, una scena che Reni aveva esplorato in vari modi, ma questa versione tarda si distingue dalle precedenti per il suo trattamento luminoso e argenteo. Rispetto alle versioni precedenti, caratterizzate da forti contrasti di luci e ombre, l’ultima redazione mostra una tavolozza più chiara e delicata, tipica della "ultima maniera" del pittore. Quest'evoluzione stilistica riflette l’influenza di un periodo in cui Reni, pur mantenendo la sua maestria nel rappresentare la figura umana e le sue emozioni, tendeva a rendere le composizioni più morbide e luminose. L’opera, appartenuta allo scrittore urbinate Paolo Volponi, si inserisce perfettamente nell’evoluzione stilistica di Reni, un pittore che, negli ultimi anni della sua carriera, abbandonò il drammatico contrasto chiaroscurale tipico delle sue opere giovanili per abbracciare una visione più serena e idealizzata della realtà. Questo cambiamento stilistico si riflette nella raffigurazione di David, che appare meno turbato e più contemplativo, in sintonia con il tono più pacato e riflessivo di questa fase della sua produzione artistica.
6.7. San Giovanni Battista nel deserto
«Vox clamantis in deserto»: la voce di san Giovanni Battista risuona in un paesaggio desolato. Il giovane, selvatico e bello, affida le sue parole al vento mentre avanza verso di noi in un deserto che è tale più per l’assenza di uomini che per la scarsità di vegetazione. Il deserto è un luogo filosofico dove si raggiunge la verità attraverso penitenza e mortificazione del corpo. Giovanni è presentato al culmine della sua ascesi, mostrando la veemenza della sua profezia. L’ultimo dei profeti e il primo dei santi indica l’agnello, prefigurando il sacrificio di Cristo, invitandoci a partecipare al suo mistero. L’opera, che unisce ideale e naturale, è un capolavoro solenne e scabro. Anche se danneggiato da vecchi restauri, il dipinto mostra una sorprendente potenza espressiva. L’opera era conosciuta in una derivazione conservata nella collezione Koelliker, realizzata da un seguace sulla base della nostra tela, che mostra una maggiore freschezza ideativa. Un pentimento evidente riguarda la posizione della gamba destra del santo. L’agnello, pur incompleto, è finito con un rapido e nervoso impasto scuro, difficile da riprodurre in copia. È possibile che Cantarini avesse realizzato un altro originale della stessa composizione. Il pittore potrebbe essersi ispirato al dipinto di Valentin de Boulogne e al modello di Guido Reni, pur non seguendolo pedissequamente. La resa dell’epidermide e i tratti fisionomici sono tipicamente cantariniani, evidenti anche in altre opere come il San Sebastiano di Reni del 1640. Il dipinto supporta anche l’attribuzione al Pesarese del David con la testa di Golia, esposto alla National Gallery di Londra. L’opera di Cantarini divenne fonte di ispirazione per i suoi seguaci, in particolare Flaminio Torri, autore del San Giovanni Battista Zambeccari, una sintesi delle due formule pittoriche di Simone.
6.8. San Giovanni Battista nel deserto
San Giovanni Battista nel deserto, realizzato da Valentin de Boulogne intorno al 1630-1631, è un'opera che si distingue per la sua intensità emotiva e la rappresentazione innovativa del santo. Conservato presso l'Arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche, il dipinto è uno degli esempi più significativi delle interpretazioni che Boulogne ha dedicato a questo soggetto. A differenza delle tradizionali raffigurazioni di San Giovanni Battista, questa tela si distingue per l'espressiva psicologia del santo e la sua rappresentazione in una posizione inusuale. L'artista lo presenta in un movimento dinamico, una figura sconvolgente che si stacca nettamente dalle rappresentazioni più statiche e convenzionali. L'uso accentuato del chiaroscuro, che richiama la lezione caravaggesca, conferisce alla scena un’intensità drammatica, accentuando l'emotività e la tensione della figura. Questa opera rappresenta una delle ultime fasi della carriera di Valentin de Boulogne, che, come Simone Cantarini, morì prematuramente, lasciando un'impronta significativa nel panorama artistico del Seicento. Il dipinto non solo testimonia il suo talento, ma riflette anche il periodo di transizione della sua arte, in cui l'influenza di Caravaggio si mescola con un interesse per la rappresentazione più teatrale e coinvolgente delle emozioni umane.
7. Poesia e favole antiche: Cantarini profano
Non solo pale d’altare, tele di devozione e ritratti, ma anche soggetti mitologici, filosofici e allegorici. L’Ercole e Iole, esposto per la prima volta, costituisce un vertice della produzione profana di Cantarini. Intriso di suggestioni letterarie e teatrali, il dipinto esalta – e al contempo condanna – le follie a cui può indurre l’amore: dopo aver reso Iole sua concubina, Ercole diviene schiavo della principessa, filando per lei come un’ancella devota. La tela, ammirata da Malvasia a Bologna nella collezione del senatore Pietramellara, era considerata «più bella» e «giusta» della perduta Iole di Reni perché riusciva a essere ideale e naturale insieme, altrettanto divina e al tempo stesso terrena. Le alte ambizioni di Cantarini includono la poesia, ispirato dai fertili contesti letterari dei suoi protettori bolognesi e romani. Secondo le fonti, egli avrebbe raccolto le sue rime amorose in un manoscritto destinato alla stampa. Simone intende tenere insieme lirica e pittura sulla scia di un’opinione condivisa nel Seicento, come suggeriscono diverse altre sue opere qui esposte: l’Amore disarmato dalle ninfe, il Giudizio di Paride e l’Allegoria della Poesia.
7.1. Ercole e Iole
Questo ampio quadro di Cantarini, realizzato tra il 1642 e il 1646, è una delle sue più importanti opere profane. La tela, esposta per la prima volta dopo il restauro, è stata datata grazie a fonti documentarie e confronti con altre opere del pittore. Il dipinto, conservato in ottimo stato, è probabilmente lo stesso citato nel 1678 da Carlo Cesare Malvasia, che lo descrive come un’opera di grande bellezza. Malvasia menziona il dipinto, che rappresenta Iole nuda con Ercole, e lo collega al «Senatore Melara», che possiamo identificare con Giovanni Antonio Vassé Pietramellara Bianchi, ambasciatore di Bologna a Roma. Malvasia celebra l’opera per la sua grazia e la somiglianza della figura di Iole con lo stile di Guido Reni. Il senatore Vassé Pietramellara, un nobile bolognese, possedeva una collezione di opere rinomate, tra cui diverse di Reni, Elisabetta Sirani e Agostino Carracci. La collezione rifletteva un gusto per opere di ambito reniano, come confermato dall'inventario dei beni del marchese Giacomo Vassé Pietramellara. Il dipinto, datato agli anni Quaranta, condivide una gamma cromatica e dimensioni simili ad altre opere di Cantarini, come quella a Dresda. Esiste anche una seconda versione della Iole, documentata nella collezione dell’abate Giuseppe Paolucci e in altre menzioni storiche, come nel 1846 da Federigo Alizeri. Una versione ridotta è stata recentemente venduta in asta in Brasile. La differenza principale tra le due versioni è che la figura di Iole nella seconda è rappresentata senza veli, come descritto da Malvasia. Inoltre, diverse repliche della bottega di Cantarini circolavano già in epoche antiche, come quella di Flaminio Torri e un’altra attestata nel 1685 nella collezione del banchiere Giacomo Maria Marchesini.
7.2. Allegoria della Poesia
Questo splendido dipinto, attribuito a Simone Cantarini nel 1998 da Daniele Benati, rappresenta un'allegoria della Poesia. La giovane figura, su uno sfondo scuro ravvivato da un tendaggio, tiene il libro con la mano sinistra e la penna d'oca con la destra, in attesa dell'ispirazione. Una corona d’alloro cinge la sua testa, e una veste azzurra lascia parzialmente scoperto il suo seno, con un evidente pentimento. Altri simboli della Poesia, come il flauto e il violino, fanno riferimento rispettivamente alla poesia pastorale e lirica. Simone Cantarini ha scelto questo tema ispirato dalla sua passione per la poesia, testimoniata anche da versi d’amore nei suoi disegni. Le fonti documentano almeno due versioni della tela. Carlo Cesare Malvasia cita due «mezze figure grandi» nella collezione bolognese di Filippo Ballatino: una allegoria della Musica e una della Poesia. Un’altra versione è ricordata come appartenente a monsignor Fabio degli Abati Olivieri, esposta nel 1706 a Roma. L’opera fa parte di una serie allegorica realizzata intorno al 1645, che include anche allegorie della Musica, Pittura e Astronomia. La progettazione di queste allegorie è documentata da studi preparatori per ciascun soggetto. Un ulteriore foglio presenta una figura allegorica con elementi iconografici della Poesia, ma il diadema sulla sua testa potrebbe farla sembrare una Sibilla, in quanto la Poesia dovrebbe avere una corona d’alloro.
7.3. Omero cieco
Omero cieco, realizzato da Pier Francesco Mola e la sua bottega tra il 1655 e il 1665, è un'opera che presenta il celebre poeta della Grecia antica, Omero, mentre dettava i suoi versi suonando il lirone. Questo dettaglio fa riferimento alla tradizione antica di accompagnare la poesia con la musica, una pratica che rivela l'interesse per la cultura classica e l'arte poetica dell'epoca. Il dipinto offre una riflessione interessante sulla connessione stilistica tra Simone Cantarini e Pier Francesco Mola, due artisti che condividevano non solo influenze culturali simili, ma anche un approccio analogo alla pittura e al disegno. Entrambi furono profondamente influenzati dalle correnti artistiche di Bologna e Roma, dove svilupparono uno stile ricco di riferimenti poetici e letterari. Questo approccio, che traspare chiaramente nell'opera, è caratterizzato da una grande attenzione alla qualità del disegno, alla densità emotiva e alla creazione di atmosfere raffinate e letterarie. Conservato nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica, presso la Galleria Corsini di Roma, questo dipinto non solo esplora la figura di Omero, ma serve anche a mettere in luce la vicinanza stilistica e concettuale tra i due artisti, segnando un importante momento di connessione tra la tradizione classica e le nuove tendenze artistiche del Seicento.
7.4. Filosofo con compasso (Euclide?)
La storia di questo dipinto è sconosciuta prima della sua comparsa all'asta della casa Pandolfini di Firenze il 17 maggio 2016, come «Ritratto di matematico», attribuito genericamente ad un «Artista del XVII secolo». Acquistato dal proprietario attuale, l’opera è stata riconosciuta come uno dei lavori più qualitativi di Simone Cantarini. Massimo Pulini ha confermato questa attribuzione. Dopo il restauro nel 2018, il dipinto è stato esposto nella mostra La quadreria del castello a Bologna nel 2022. L’opera, incompiuta, mostra il volto del filosofo quasi finito, con luce e ombre naturali sulle rughe e la pelle, e un trattamento stilizzato della barba. Il pennello definisce con rapidità il braccio e la mano, usando un colore bruno per i dettagli e suggerendo il completamento dell’opera. Durante il restauro, sono stati rimossi alcuni ritocchi, ma sono state mantenute aggiunte inferiori, probabilmente create per adattarsi ai gusti antiquari. Il compasso e l’espressione meditativa del filosofo suggeriscono che la figura rappresenti un antico filosofo, forse Euclide, ma anche Eraclito, Democrito e Archimede sono possibili. Secondo Giampietro Zanotti, nel 1648, Cantarini affidò la sua bottega a Lorenzo Pasinelli mentre era a Mantova. Dopo essersi rifugiato a Verona, Cantarini morì a 36 anni. Sebbene quest'opera non figuri nell'inventario del 1738, è probabile che fosse una delle tele incompiute recuperate dal fratello Vincenzo. Lo stile dell’opera è coerente con l'ultima fase dell'artista, simile alla pala di Gandino e al Sogno di san Giuseppe.
7.5. Agar e Ismaele nel deserto con l’Arcangelo Michele
“Agar e Ismaele nel deserto con l’arcangelo Michele” è un'opera di Simone Cantarini, databile tra il 1642 e il 1645, che esplora un tema caro all'artista, il quale lo ripropose frequentemente nel corso della sua carriera. Questa tela, conservata presso la Pinacoteca San Domenico di Fano, appartenente alla Fondazione Cassa di Risparmio, rappresenta una delle sue versioni più significative. Il soggetto dell'opera, che narra la storia biblica di Agar e del figlio Ismaele nel deserto, è stato ripreso dal pittore in diverse occasioni. Oltre alla versione di Fano, si ricordano altre realizzazioni dello stesso tema, tra cui una commissionata da un mercante di Venezia, una per Matteo Macchiavelli, e un'altra conservata nel Musée des Beaux-Arts di Pau. Inoltre, Cantarini eseguì una versione per il conte bergamasco Giovanni Pesenti, sebbene quest'ultima sia andata perduta. Il pittore realizzò anche numerosi disegni e una stampa settecentesca che traducevano il soggetto in nuove varianti. L'opera dimostra la profondità e la varietà dell’interesse di Cantarini per questo tema biblico, che lo ispirò a esplorare diverse soluzioni compositive e stilistiche. La sua ripetuta scelta di questo soggetto evidenzia anche l'importanza che esso ricopriva nella sua produzione artistica.
7.6. Il giudizio di Paride
“Il giudizio di Paride” di Simone Cantarini è un'opera realizzata tra il 1643 e il 1648, in olio su tela, conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, in comodato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro (inv. D 123). L'artista si ispirò per questo dipinto a una stampa di Marcantonio Raimondi, tratta da un disegno di Raffaello, per la rappresentazione del celebre episodio mitologico. Cantarini, operando in una fase avanzata della sua carriera, si rifà stilisticamente alla tradizione pittorica bolognese di stampo carraccesco, con il suo caratteristico equilibrio tra classicismo e naturalismo. Il dipinto, creato alla fine della breve vita dell'artista, si distingue per una resa volutamente non finita delle figure, che vengono delineate con velature sottili stese direttamente sulla preparazione della tela. Questo approccio espressivo e raffinato riflette la sensibilità di Cantarini per un linguaggio pittorico sempre più sfumato e atmosferico, in linea con le sue esperimentazioni più mature.
7.7. Amore disarmato dalle ninfe di Diana
“Amore disarmato dalle ninfe di Diana” di Simone Cantarini, realizzato tra il 1646 e il 1647 circa, in olio su tela, è conservato in una collezione privata a Milano (Altomani Courtesy). Quest'opera rappresenta una delle vette della fase più intensa e matura dell'attività di Cantarini, quando l'artista era alla guida di un atelier fiorente a Bologna. L'opera è arricchita da una serie di appunti grafici molto dettagliati, che forniscono una preziosa finestra sul suo processo creativo e sulla sua capacità di esplorare il concetto di "non finito". Questo approccio, che enfatizza il processo di costruzione e la sfumatura delle forme, è oggi considerato un aspetto distintivo della sua pittura e una delle radici del linguaggio artistico contemporaneo. Inoltre, il dipinto testimonia i legami professionali e personali di Cantarini con i suoi allievi, in particolare con Lorenzo Pasinelli, che possedette l'opera per tutta la sua vita, sottolineando così il passaggio di conoscenze e il continuo scambio creativo all'interno dell'ambiente bolognese.
Galleria Nazionale delle Marche
Itinerario Mostra Simone Cantarini
Lingua dell'itinerario:
1. Introduzione - Incontrare Simone Cantarini: Antefatti Rovereschi e Felsinei
1.1. Partenza di Federico Ubaldo Della Rovere per Firenze; Allegoria dell’Allegrezza delle nozze e Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I
1.2. Ritratto di Felice Cioli
1.3. Ritratto di Guido Reni
1.4. Autoritratto con taccuino e lapis
1.5. Allegoria della Pittura
2. Urbino e i Barberini
2.1. Ritratto di Antonio Barberini
2.2. Tre versioni del Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior
2.3. Legatione del Ducato d’Urbino con la diocesi, e governo di Città di Castello ed altri governi e Stati confinanti
2.4. Eleonora Albani Tomasi
2.5. Ritratto di gentiluomo e gentildonna con rosario
3. Elegie Sacre
3.1. Sacra Famiglia
3.2. Sacra Famiglia (Museo del Prado)
3.3. Adorazione dei Magi
3.4. Sacra Famiglia con libro e rosa
3.5. Riposo durante la fuga in Egitto
3.6. Madonna col Bambino in gloria e i santi Barbara e Terenzio
3.7. Madonna del Rosario
3.8. Immacolata Concezione con santi
3.9. San Giacomo in gloria
3.10. Madonna della Rosa
4. Santi umanisti e filosofi, oltre Caravaggio e Reni
4.1. Rinnegamento di San Pietro e Sant’Andrea apostolo
4.2. San Giuseppe penitente
4.3. Testa di vecchio (San Giuseppe?)
4.4. San Matteo e l’angelo
4.5. San Girolamo in meditazione
4.6. San Girolamo assorto nella lettura
4.7. San Girolamo in meditazione davanti al Crocifisso
4.8. San Girolamo che scrive
4.9. San Girolamo
5. L'Atelier dell'artista: finito e non finito, ombre e luci, ideale e naturale
5.1. Due versioni di Lot e le figlie
5.2. Due versioni di San Girolamo in meditazione
5.3. Due versioni di San Girolamo in lettura nel deserto
6. Classicismo e Naturalismo: variazioni sul tema
6.1. Vergine orante
6.2. La Sacra Famiglia come Santissima Trinità
6.3. Sacra Famiglia con Santa Caterina da Siena
6.4. Sacra Famiglia con San Giovannino
6.5. Due versioni di Sacra Famiglia
6.6. David contempla la testa di Golia
6.7. San Giovanni Battista nel deserto
6.8. San Giovanni Battista nel deserto
7. Poesia e favole antiche: Cantarini profano
7.1. Ercole e Iole
7.2. Allegoria della Poesia
7.3. Omero cieco
7.4. Filosofo con compasso (Euclide?)
7.5. Agar e Ismaele nel deserto con l’Arcangelo Michele
7.6. Il giudizio di Paride
7.7. Amore disarmato dalle ninfe di Diana
Itinerario Mostra Simone Cantarini
Galleria Nazionale delle Marche
Questo itinerario è dedicato alla mostra monografica dedicata a Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – Verona, 1648) ospitata dal 22 maggio al 12 ottobre 2025 presso gli spazi di Palazzo Ducale ad Urbino
Lingua dell'itinerario:
Percorso di visita
1. Introduzione - Incontrare Simone Cantarini: Antefatti Rovereschi e Felsinei
1.1. Partenza di Federico Ubaldo Della Rovere per Firenze; Allegoria dell’Allegrezza delle nozze e Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I
1.2. Ritratto di Felice Cioli
1.3. Ritratto di Guido Reni
1.4. Autoritratto con taccuino e lapis
1.5. Allegoria della Pittura
2. Urbino e i Barberini
2.1. Ritratto di Antonio Barberini
2.2. Tre versioni del Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior
2.3. Legatione del Ducato d’Urbino con la diocesi, e governo di Città di Castello ed altri governi e Stati confinanti
2.4. Eleonora Albani Tomasi
2.5. Ritratto di gentiluomo e gentildonna con rosario
3. Elegie Sacre
3.1. Sacra Famiglia
3.2. Sacra Famiglia (Museo del Prado)
3.3. Adorazione dei Magi
3.4. Sacra Famiglia con libro e rosa
3.5. Riposo durante la fuga in Egitto
3.6. Madonna col Bambino in gloria e i santi Barbara e Terenzio
3.7. Madonna del Rosario
3.8. Immacolata Concezione con santi
3.9. San Giacomo in gloria
3.10. Madonna della Rosa
4. Santi umanisti e filosofi, oltre Caravaggio e Reni
4.1. Rinnegamento di San Pietro e Sant’Andrea apostolo
4.2. San Giuseppe penitente
4.3. Testa di vecchio (San Giuseppe?)
4.4. San Matteo e l’angelo
4.5. San Girolamo in meditazione
4.6. San Girolamo assorto nella lettura
4.7. San Girolamo in meditazione davanti al Crocifisso
4.8. San Girolamo che scrive
4.9. San Girolamo
5. L'Atelier dell'artista: finito e non finito, ombre e luci, ideale e naturale
5.1. Due versioni di Lot e le figlie
5.2. Due versioni di San Girolamo in meditazione
5.3. Due versioni di San Girolamo in lettura nel deserto
6. Classicismo e Naturalismo: variazioni sul tema
6.1. Vergine orante
6.2. La Sacra Famiglia come Santissima Trinità
6.3. Sacra Famiglia con Santa Caterina da Siena
6.4. Sacra Famiglia con San Giovannino
6.5. Due versioni di Sacra Famiglia
6.6. David contempla la testa di Golia
6.7. San Giovanni Battista nel deserto
6.8. San Giovanni Battista nel deserto
7. Poesia e favole antiche: Cantarini profano
7.1. Ercole e Iole
7.2. Allegoria della Poesia
7.3. Omero cieco
7.4. Filosofo con compasso (Euclide?)
7.5. Agar e Ismaele nel deserto con l’Arcangelo Michele
7.6. Il giudizio di Paride
7.7. Amore disarmato dalle ninfe di Diana
Galleria Nazionale delle Marche
Itinerario Mostra Simone Cantarini
Lingua dell'itinerario:
1. Introduzione - Incontrare Simone Cantarini: Antefatti Rovereschi e Felsinei
1.1. Partenza di Federico Ubaldo Della Rovere per Firenze; Allegoria dell’Allegrezza delle nozze e Allegoria dell’Augurio per l’adozione di Francesco I
1.2. Ritratto di Felice Cioli
1.3. Ritratto di Guido Reni
1.4. Autoritratto con taccuino e lapis
1.5. Allegoria della Pittura
2. Urbino e i Barberini
2.1. Ritratto di Antonio Barberini
2.2. Tre versioni del Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior
2.3. Legatione del Ducato d’Urbino con la diocesi, e governo di Città di Castello ed altri governi e Stati confinanti
2.4. Eleonora Albani Tomasi
2.5. Ritratto di gentiluomo e gentildonna con rosario
3. Elegie Sacre
3.1. Sacra Famiglia
3.2. Sacra Famiglia (Museo del Prado)
3.3. Adorazione dei Magi
3.4. Sacra Famiglia con libro e rosa
3.5. Riposo durante la fuga in Egitto
3.6. Madonna col Bambino in gloria e i santi Barbara e Terenzio
3.7. Madonna del Rosario
3.8. Immacolata Concezione con santi
3.9. San Giacomo in gloria
3.10. Madonna della Rosa
4. Santi umanisti e filosofi, oltre Caravaggio e Reni
4.1. Rinnegamento di San Pietro e Sant’Andrea apostolo
4.2. San Giuseppe penitente
4.3. Testa di vecchio (San Giuseppe?)
4.4. San Matteo e l’angelo
4.5. San Girolamo in meditazione
4.6. San Girolamo assorto nella lettura
4.7. San Girolamo in meditazione davanti al Crocifisso
4.8. San Girolamo che scrive
4.9. San Girolamo
5. L'Atelier dell'artista: finito e non finito, ombre e luci, ideale e naturale
5.1. Due versioni di Lot e le figlie
5.2. Due versioni di San Girolamo in meditazione
5.3. Due versioni di San Girolamo in lettura nel deserto
6. Classicismo e Naturalismo: variazioni sul tema
6.1. Vergine orante
6.2. La Sacra Famiglia come Santissima Trinità
6.3. Sacra Famiglia con Santa Caterina da Siena
6.4. Sacra Famiglia con San Giovannino
6.5. Due versioni di Sacra Famiglia
6.6. David contempla la testa di Golia
6.7. San Giovanni Battista nel deserto
6.8. San Giovanni Battista nel deserto
7. Poesia e favole antiche: Cantarini profano
7.1. Ercole e Iole
7.2. Allegoria della Poesia
7.3. Omero cieco
7.4. Filosofo con compasso (Euclide?)
7.5. Agar e Ismaele nel deserto con l’Arcangelo Michele
7.6. Il giudizio di Paride
7.7. Amore disarmato dalle ninfe di Diana