Itinerario completo
Questo itinerario è dedicato al Museo Etnografico della Provincia di Belluno e ai suoi cimeli unici.
Museo: Museo Etnografico della Provincia di Belluno
01. Ingresso e presentazione del museo
Il primo punto d'interesse fornirà una panoramica generale del Museo fornita dalla Dott.ssa Perco.
Benvenuto al Museo Etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi! Sono Daniela Perco e ti vorrei accompagnare alla scoperta di un luogo speciale in cui si raccoglie, si conserva, si studia e si valorizza un importante patrimonio di oggetti, memorie, documenti, immagini riguardanti la vita della popolazione rurale bellunese dalla fine del secolo XIX ai giorni nostri. A 26 anni, nel 1979, dopo aver studiato antropologia all’Università di Roma, sono tornata nella mia terra e mi sono messa in testa di realizzare un museo etnografico. Ho avuto la fortuna di incontrare nel corso del tempo studiosi, associazioni, istituzioni che hanno creduto nel mio progetto. Fondamentale è stato il ruolo della Comunità Montana Feltrina, che ha comprato la villa; del Gruppo Folklorico di Cesiomaggiore, da tempo impegnato nella raccolta di oggetti di interesse etnografico e tuttora supporto fondamentale per le nostre attività; della provincia di Belluno che è diventata il capofila nella gestione di questa istituzione, a cui partecipano numerosi altri enti tra cui il Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Il museo è il frutto di ricerche etnografiche e storiche condotte nel territorio bellunese da me e da numerosi altri collaboratori, di confronti costruttivi con un antropologo visivo, Francesco De Melis, a cui si debbono molte delle immagini e dei film presenti nei percorsi espositivi, e con gli architetti Giuliana Zanella, che ha seguito il progetto museografico, e negli ultimi tempi Daniela Baldeschi. All’interno del copioso materiale documentario (beni materiali e immateriali) prodotto nel corso delle ricerche, che ha trovato collocazione negli archivi e nei depositi del Museo, era necessario scegliere alcuni temi significativi e raccontarli in maniera adeguata. Il progetto scientifico ha privilegiato argomenti vicini alla mia sensibilità e ai filoni di ricerca che avevo esplorato nel corso degli anni, con particolare attenzione al patrimonio di tradizione orale e all’emigrazione. Nell’ideazione dei percorsi espositivi ho cercato di superare una prospettiva incentrata unicamente sulla rappresentazione della cultura materiale, per lasciare spazio a comportamenti, sentimenti, relazioni: tra la balia e il figlio di latte, tra le donne e le galline, tra i malgari e le mucche, tra i discendenti dei veneti in Brasile e la terra che li ha accolti. Per questo motivo accanto agli oggetti ci sono molte fotografie e suoni, che si configurano a loro volta come veri e propri percorsi di ricerca. Ho cercato, per quanto possibile, di contemperare esigenze di conservazione, di valorizzazione del patrimonio, di coinvolgimento emotivo, di trasmissione del sapere e di rigore scientifico, di durata nel tempo e di accessibilità dei contenuti, in un intreccio di narrazioni polifoniche che mirano a restituire il senso di un’esperienza collettiva. L’unità operativa del Museo con la biblioteca specializzata, l’archivio sonoro e quello fotografico, la sala conferenze e lo spazio per le esposizioni temporanee, è stata inaugurata nel 1997, mentre il percorso espositivo è stato aperto al pubblico nel 2005. Il Museo di Seravella è diventato nel corso degli anni un presidio territoriale importante, un luogo di riferimento per le scuole e le associazioni, un’istituzione riconosciuta anche a livello nazionale per la qualità delle ricerche, i convegni, i corsi specialistici, e per la capacità di creare solide relazioni con altri musei e istituti di ricerca. Il mio auspicio è che possa sempre più configurarsi come luogo d’incontro e di confronto, in cui la riflessione sulla diversità culturale possa stimolare una migliore costruzione del presente. Quante storie individuali e collettive si celano dietro agli oggetti esposti nel museo! Ti invito ad ascoltare almeno una di quelle raccontate nell’atrio di ingresso, dove tra l’altro è esposto un manufatto simbolico: una canottiera di lana grezza da uomo, rammendata all’inverosimile, recuperando pezzi di calzini, di altre canottiere, oppure semplicemente ricostruendo delle parti mancanti. E’ un simbolo dell’abilità femminile di cucire e rammendare, della capacità di riutilizzare la materia, di mettere insieme i pezzi anche metaforicamente. E’ inoltre testimonianza di povertà, di una vita di stenti e di partenze per cercare di sopravvivere in un ambiente ostile come quello montano. Prima di proseguire il percorso all’interno del museo, ti consiglio di uscire per godere di uno splendido panorama, dei profumi e dei colori delle rose.
02. Il giardino delle rose antiche
Il secondo punto d'interesse si trasforma in un locus amoenus di rose e profumi.
Lasciati inebriare dal profumo delle rose, affonda il naso tra i petali vellutati. Questo roseto, una piccola perla del museo, è un luogo davvero imperdibile. La fioritura, che avviene tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, è il momento migliore per poter godere dei colori e delle fragranze di questo giardino pensile. Se ti trovi al museo in altri periodi dell’anno, trovi alcune rifiorenti e puoi rimanere sorpreso dalla quantità e dalla forma delle spine e dalla bellezza delle bacche. Racchiuse tra le mura del giardino pensile e disseminate in gran parte dei terreni del museo, ci sono oltre 360 piante di rosa, raccolte a partire dal 1997 nel territorio bellunese. Nato da una mia proposta, visto che amo molto le rose, il giardino è stato realizzato attraverso un lavoro certosino di riproduzione, per talea o margotta, di varietà di rose antiche presenti nelle case contadine, nelle ville, nelle canoniche, nei cimiteri del territorio. Il pollice verde di Renato Dal Cin e la passione di Alida Dal Farra hanno contribuito a creare un posto unico nel suo genere: nessun rosaio è stato comprato e molte delle loro storie meritano di essere raccontate! Per esempio la rosa Jack Quartet è stata recuperata nell’orto di una balia di Porcen che a sua volta aveva preso delle talee nella villa dei signori di Varese presso cui lavorava. Alcune bellissime rose antiche come la William Richardson provengono da una piccola collezione che il nonno di Alida dal Farra aveva portato da Napoli, dove faceva il giardiniere presso un’importante famiglia aristocratica. Altri rosai, come Bloomfield Abundance, sono il frutto di un incredibile viaggio: ho portato con me in valigia alcune talee raccolte nelle case contadine dei discendenti dei bellunesi e dei veneti emigrati in Brasile alla fine dell’800! Il giardino, come il museo, rappresenta un bell’esempio di partecipazione della comunità: parecchie rose sono state donate da persone che, dopo aver visto il giardino e constatato la mancanza proprio del vecchio rosaio che avevano in casa, hanno portato una piantina o una talea, come le belle damascene muschiate, color porpora, regalate da una signora di Valle di Cadore o una rosa rifiorente profumata, probabilmente una Portland, donata da una donna, che a sua volta l’aveva ricevuta in dono da una coppia di anziani coniugi, come segno di benvenuto nel paese del marito, a Villa di Sedico. Dal berceau del giardino puoi godere di uno splendido panorama sulla Val Belluna e sulle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità e osservare il museo da una prospettiva particolare. La villa in cui ci troviamo è probabilmente stata costruita su un precedente edificio in cui dimorava ai tempi della Serenissima il custode del bosco di roveri di Seravella, un bosco protetto che forniva legname pregiato per la cantieristica navale nell’Arsenale di Venezia. Con la caduta della Repubblica veneta il bosco passò nelle mani del Ministero della guerra e successivamente fu acquistato dalla famiglia dei conti Azzoni Avogadro. Nel corso degli anni Seravella divenne una delle maggiori aziende agricole del Bellunese, la prima ad avvalersi di trattori per la lavorazione dei terreni! Da questa posizione puoi immaginare i campi agricoli, posti ai piedi della collina, coltivati a frumento, granoturco, patate, viti e alberi da frutto, senza tralasciare numerosi gelsi: infatti, un’ala della casa padronale era riservata all’allevamento dei bachi da seta. Inoltre, nella parte rurale della villa, c’erano ben due stalle, una per i bovini adulti e una per i vitelli, in grado di accogliere circa quaranta capi. A Seravella abitavano due famiglie di mezzadri, mentre i signori vi trascorrevano il periodo estivo. Ora lascia alle tue spalle questo crogiolo di colori e profumi e preparati a visitare i suggestivi allestimenti del museo! Entra e vai a sinistra nella sezione dedicata alla collezione di Bepi Mazzotti.
03. La collezione etnografica Bepi Mazzotti
Il terzo punto d'interesse è dedicato alla collezione etnografica Mazzotti.
Viene voglia di provarli, di sentirli scorrere sulla neve e cercare di farli curvare senza avere l’ausilio nemmeno di una leggera sciancratura, o di provare a piantare i bastoncini, vedendoli affondare nella neve fresca e farinosa! Sarebbe una bella soddisfazione! Se poi ti racconto che sono stati i compagni ideali delle gite invernali sulle crode del celebre alpinista, scrittore, fotografo e giornalista, Bepi Mazzotti, questa tentazione sarà ancora più irrefrenabile! Questi sci e la collezione di oggetti che ti appresti a visitare nelle prossime tre sale, sono appartenuti proprio a questa vivace e poliedrica personalità. La figlia Anna, che li conservava nella casa di Selva di Cadore, dove Bepi e la moglie valdostana Nerina trascorrevano lunghi periodi, li ha voluti donare al Museo per testimoniare l’interesse che il padre ha mostrato fin da giovane per la cultura popolare. Mazzotti ha dedicato molti dei suoi anni alla tutela e valorizzazione del paesaggio veneto e del patrimonio artistico e culturale alpino. Ha contribuito a far conoscere la gastronomia, l’architettura rurale, la ceramica popolare, ma si è impegnato soprattutto a salvaguardare dal degrado e dall’abbandono le ville venete, partecipando alla stesura della Legge di tutela n. 243/1958 e all’istituzione dell’Ente per le Ville Venete. Tra gli oggetti etnografici, in questa sezione incontrerai il gusto estetico del Bepi collezionista che raccolse moltissimi manufatti popolari di grande suggestione, provenienti da diverse parti del Nord Italia. Ti invito a osservare i particolari degli intagli elaborati delle rocche da filatura, i colori e le forme dei cuchi realizzati dai ceramisti di Nove, la creatività delle pipe di legno di marasco degli artigiani di Borso del Grappa, la maestria dei pastori valdostani che si coglie nella raccolta di mucche, galli e cavalli esposti, la fantasia dei decori zoomorfi e floreali nei bastoni. Continua il percorso attraversando l’atrio d’ingresso.
04. Cucina
Il quarto punto d'interesse è interamente dedicato alla cucina.
La cucina era lo spazio più importante della casa, con il focolare (larìn), ricavato in un vano sporgente rispetto al muro perimetrale dell’edificio, per evitare incendi. Il larìn è costituito da una grande pietra centrale con una cappa sovrastante, intorno a cui sono disposte panche di legno rialzate. D’inverno era frequente consumare il cibo seduti sulle panche oppure nella stalla intiepidita dal calore degli animali. Nelle aree dolomitiche questi focolari sporgenti sono meno frequenti e una parte del cibo veniva preparata nella stufa in muratura presente nella stua, una stanza rivestita di legno. In alcune famiglie la donna anziana di casa, fino agli anni Cinquanta, serviva le pietanze a tutti i commensali e poi mangiava frugalmente stando in piedi. Appeso alla catena del larin, c’è il paiolo di rame per cuocere la polenta, il vero cardine del sistema alimentare di queste zone. Anche in questo caso va fatta la distinzione tra sud e nord della provincia. Se infatti nella prima, la polenta era così centrale da identificare gli abitanti della Valbelluna come polentoi, nel secondo caso, per questioni climatiche che mettevano a dura prova la coltivazione del granoturco, prevaleva un’alimentazione basata sul pane di segala, l’orzo e molti latticini. Il granoturco venne introdotto nel Bellunese intorno al 1630 e in brevissimo tempo sostituì altre farine come quelle di orzo, di miglio, di spelta e di grano saraceno. Purtroppo la mancanza di companatico e una dieta basata quasi esclusivamente sul mais portarono alla diffusione della pellagra, una grave malattia i cui sintomi più evidenti erano la dermatite, la diarrea e la demenza. Lo sai che da queste parti puoi trovarti a discutere anche su come deve essere la consistenza della polenta o sul colore che deve avere? In montagna si prepara una polenta più dura e soda, mentre morbida e cremosa è quella che viene preferita dalla collina al mare. La disputa tra polenta bianca e polenta gialla suscita accese prese di posizione identitarie: per quelli della pianura, dove è diffusa la coltivazione del mais “bianco perla”, la polenta gialla si dà ai maiali e alle galline, per quelli della montagna la polenta bianca non sa di nulla. Le variazioni nella preparazione sono numerose: polentine molli col latte come la dufa o la sarenta, polenta mescolata ai fagioli (infasolàda), o alle patate (impatatada, a Lamon cartufolaa), polenta liquida che viene fatta insaporire insieme al cotechino o a qualche carne (tocà da boia, scòt)., Ora avviati verso il retro-cucina dove troverai un grande secchiaio.
05. Secchiaio
Il quinto punto d'interesse è dedicato al secchiaio di pietra calcarea e ai suoi secchi di rame.
Il secchiaio che hai di fronte è composto da un’unica lastra di pietra calcarea proveniente da Perina, una località di Cesiomaggiore. Qui si lavavano i piatti con la cenere o col sapone fatto con grasso e ossa di maiale, oppure si lavavano le verdure come l’insalata, per poi scolarla con quei cestelli di fil di ferro che trovi sopra la mensola. Appesi sotto il secchiaio ci sono i secchi di rame che servivano per il trasporto dell’acqua. Infatti, prima della diffusione della rete idrica, l’unico sistema per rifornirsi era quello di andare alle fontane, ai pozzi, ai torrenti più vicini utilizzando l’arconcello (bigol/ zenpedon), una sorta di bilanciere che consentiva di ripartire il peso sulle spalle. Di solito questo compito gravoso spettava alle donne e ai bambini che talvolta dovevano percorrere lunghi tragitti, come i contadini che abitavano in questa villa e che dovevano scendere il ripidissimo versante per attingere l’acqua dal Salmenega. In quei luoghi, specialmente al riparo della grotta di travertino, si diceva abitasse la caora barbana, una capra dall’aspetto pauroso, di cui venivano narrati i terribili dispetti per scoraggiare i bambini dal rimanere troppo tempo in questi posti, potenzialmente pericolosi. Se ti hanno incuriosito queste storie del territorio, più tardi ti racconterò di altre intriganti creature che si dice abitino gli specchi d’acqua. Lo sai che in dialetto si dice Te se n secèer!, Sei un secchiaio, rivolto ad una persona che mangia tantissimo? Continuando il nostro percorso sull’alimentazione vorrei parlarti di alcuni oggetti esposti nel corridoio.
06. I pestapapaveri
Il sesto punto d'interesse è dedicato ai pestapapaveri per ottenere i semi di papavero.
Questi grandi strumenti fanno pensare a mondi lontani, sembrano quasi africani! Sai a cosa servivano? Le consuetudini alimentari nella zona dolomitica risentono della vicinanza dell’Austria, nei nomi di alcuni piatti (tircle, canifli, zigher) e nell’utilizzo di ingredienti particolari come i semi di papavero, che venivano pestati nei pestelli (pile da pavà) e usati per condire pietanze salate (casunziéi, ravioli ripieni, foiàde, tagliatelle) e dolci (casunciéi da pavè, canìfli, gnòch da pavè). In una dieta fondamentalmente basata su cereali e patate, questi semi oleosi rappresentavano un’importante integrazione alimentare. In alcune zone della provincia venivano usati con lo stesso scopo i semi di canapa, che nella Val di Zoldo le donne mangiavano anche per aumentare la produzione di latte. Le capsule dei papaveri (mazòche) venivano talvolta utilizzate per un infuso calmante da somministrare ai bambini. Vai ora verso la sala della biodiversità coltivata. Lungo il corridoio troverai a terra uno strumento particolare: uno schiacciapatate ligneo coi piedi. Le patate, che si diffusero nel Bellunese nel secolo XIX, salvarono dalla fame molti abitanti di questi luoghi. Di fronte ai paioli e ai pentoloni di rame, collocati alla fine del corridoio, sono esposte piccole palette di ferro che servivano per togliere le croste della polenta dal paiolo. Una vera leccornia!
07. Sala Biodiversità Coltivata
Il settimo punto d'interesse è dedicato alla biodiversità e ai frutti della terra.
Il camicione che è qui esposto, ricavato dalla tela di un pagliericcio, serviva per raccogliere le mele o le pere. Veniva indossato come una camicia e fermato in vita con un cordino. La frutta, che si infilava dalla scollatura, veniva così trattenuta e si poteva portare fino a 25 chili! Chi effettuava la raccolta poteva muoversi agevolmente sugli alberi, avendo le mani libere. Per raccogliere mele e pere dai rami più alti, rimanendo a terra, si usava un lungo bastone con una sorta di cestello all’estremità (pomaròla, golosa, ciaspa). Nel 1998 ho proposto al Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi di iniziare una ricerca sulle varietà locali di mele, di pere, di fagioli, ma anche su alcune piante spontanee utilizzate nell’alimentazione. Questo lavoro, che per alcuni anni ha visto impegnati agronomi, etnobotanici e una disegnatrice naturalistica, ha portato all’individuazione di numerosissime varietà locali e alla raccolta, dai contadini “custodi della biodiversità”, di informazioni preziose sulle tecniche di coltivazione, sui significati simbolici, sul lessico: pon del fèr, pon de la roséta, per budèl, per paz, pon prussiàn, per gnòch, per del diàol, pon de la Madòna, pon de l òio, pon armelón, pon de San Giacomo, pon de la segàla, per patata, per de la merda, per del diàol, perùzole. Hai sentito quanti nomi dialettali per designare le mele e le pere? Questa ricchezza linguistica rispecchia una ricchezza di varietà coltivate, unica nel territorio Veneto! Il motivo è che nel nostro territorio non si è sviluppata un’agricoltura intensiva come nei vasti spazi delle pianure e quindi si sono conservati i vecchi alberi da frutto. Tutte queste varietà hanno profumi, gusti e colorazioni diversi tra loro, a volte molto caratterizzanti: prova ad esempio ad immaginare di annusare e mangiare una mela chiamata rosetta o una pera chiamata burro! Ma che senso aveva coltivare così tante piante diverse? Innanzitutto se una pianta si ammalava, magari un’altra era più resistente e riusciva a sopravvivere; inoltre veniva garantita una migliore disponibilità di frutta in più periodi dell’anno. Alcune pere infatti sono già pronte a fine luglio, altre bisogna aspettare novembre perché inizino ad essere mature, altre ancora sono mangiabili solo se prima vengono cotte. Per riuscire a sopperire allo scarso apporto di vitamine in primavera, dovuto alla mancanza di frutta e verdura fresca, spesso si conservavano le mele facendole seccare oppure cuocendole per ricavarne una pasta (codinzon). Ti propongo un indovinello sul tema della biodiversità coltivata: Par istinto ranpegón co l aiuto de n bastón; son da freschi intabaradi, son da veci despoiadi, par finir anca bagnadi! Per istinto arrampichiamo con l’aiuto di un bastone; siamo prima intabarrati, da vecchi spogliati, per finire poi bagnati! ... Ma certo i fagioli! Dai mille colori, forme e fattezze, sono loro ad aver dominato la scena nei campi bellunesi dagli inizi del Cinquecento, quando furono introdotti dal canonico bellunese Pierio Valeriano che li aveva ricevuti in dono dal papa Clemente VII. Lo sai che fu proprio Valeriano che, dopo averli coltivati a Belluno, li diffuse nelle altre regioni del Nord Italia? Venivano chiamati la carne dei poveri perché erano la maggiore fonte di proteine che potevano permettersi i contadini. Li puoi osservare e toccare in un angolo di questa sala. Lasciati sorprendere anche dai nomi con cui sono conosciuti: masseléta rossa, gialét, bonèi, medaie de la suocera, fino al famosissimo fagiolo borlotto di Lamon conosciuto in tutta Italia grazie al Consorzio di Tutela. I fagioli non sono gli unici legumi ad aver contribuito all’alimentazione della povera gente di queste zone: molto apprezzati erano i piselli, le lenticchie, ma soprattutto le fave, ormai coltivate solamente in qualche piccolo orto domestico in area dolomitica. La fava ha sicuramente rivestito un ruolo importante, proprio laddove non crescevano i fagioli. Veniva fatta seccare in strutture di legno alte fino a 10 metri chiamate favèr o arfe, di cui ormai resistono pochi esemplari. Non sai come è fatto un favèr? Sali le scale e lo vedrai nella grande foto della sala del pendio dietro ad un gruppo di persone intente a scivolare con la slitta.
08. La gerla e le fatiche del pendio
L'ottavo punto d'interesse si sofferma sui metodi antichi con cui si gestiva la pedenza delle montagne quando si lavorava.
Abitare la montagna significa avere a che fare quotidianamente con salite e discese, significa modificare la propria postura per cercare un equilibrio camminando, equilibrio che diventa più difficile da raggiungere quando si lavora nei campi, si trasporta la legna, si compiono le operazioni legate alla fienagione. Oggi è tutto più semplice, ma fino agli anni Sessanta del Novecento, bisognava affidarsi a soluzioni ingegnose: scarpe chiodate per non scivolare, ramponi da neve e da ghiaccio, portantine di legno con gli spallacci (kraz, fièrcle), gerle di varia capienza costruite intrecciando rami di nocciolo. Erano soprattutto le donne a portare pesi e trasportavano carichi enormi di fieno, di legna, di patate, fino a 35-40 chili. Bisognava bilanciare bene il proprio corpo, spostandolo in avanti per affrontare la pendenza in modo adeguato. Qualche donna anziana che ho intervistato mi ha mostrato un solco sulle spalle: il segno che lasciavano gli spallacci delle gerle, anche quando si cercava di proteggersi con degli stracci per alleviare il dolore. Laddove le pendenze erano particolarmente accentuate, soprattutto nell’area dolomitica, il dilavamento dei terreni veniva risolto in primavera, riportando a monte la terra prima della semina con l’uso di una particolare carriola a tre ruote, il graton dela tera, utilizzata in coppia con un argano e un sistema di contrappesi. Anche gli strumenti agricoli si adattavano alla pendenza dei versanti (accorciamento del manico, maggiore curvatura del pettine del rastrello e più accentuata inclinazione dei denti). La diffusa presenza di versanti ripidi e l’abbondante innevamento portarono ad una specializzazione nella costruzione delle slitte, come quelle esposte: per il trasporto dei tronchi con il traino animale, per portare le persone, per caricare il fieno, per trasportare il letame. La costruzione di una slitta richiedeva grandi abilità e soprattutto una notevole conoscenza delle caratteristiche dei legni da impiegare. Ora avvicinati agli slittini in fondo alla sala, ed immagina i pendii dolomitici imbiancati da una soffice nevicata.
09. Lo slittino
Il nono punto d'interesse passa in rassegna alcuni slittini locali.
Tra tutti gli slittini esposti ne troverai uno davvero ingegnoso! Proviene da Brusadaz nella Valle di Zoldo, un paese di montagna in cui in inverno la neve non manca. Per costruirlo è stata riutilizzata una catena della bicicletta che serve come snodo per far muovere, attraverso un manubrio, dei pattini sterzanti! Ma non finisce qui: con un fil di ferro e una piccola lastra seghettata è stato creato un freno a mano. In questa slittino, un piccolo bob, potevano salire fino a quattro bambini e anche gli adulti lo usavano comodamente. L’arrivo della neve significava divertimento per grandi e piccini, visto che tutti si cimentavano in vere prove di abilità, in gare a perdifiato lungo i pendii delle montagne o sulle strade ghiacciate. Molte persone ricordano ancora l’abitudine di versare secchiate d’acqua lungo le piste sul calar della sera in modo che la gelata notturna potesse rendere ancora più divertenti le scivolate del giorno successivo. Gli slittini in questo territorio montano venivano designati con svariati nomi: feriòn, lizét, rizét, per definire uno slittino classico, mentre feriét o schirata per uno slittino piccolo o lùia per uno molto grande. Solitamente venivano costruiti in casa utilizzando i legni disponibili: faggio, pioppo, olmo, frassino e riutilizzando i dorsi delle vecchie falci, per creare i pattini. Ti ho ricordato alcuni dei tanti nomi dialettali degli slittini e adesso ti invito nella sala successiva dove potrai scoprire i suoni dei diversi dialetti di questa provincia.
10. Segni e parole
Il decimo punto d'interesse si sofferma sulle forme dialettali bellunesi.
In un territorio così vasto e diversificato, non ti sorprenderai se un abitante del Feltrino fatica a capire la parlata ampezzana! Infatti, se nella parte meridionale del Bellunese i dialetti sono quelli tipici del veneto settentrionale, risalendo il Piave, accolgono via via elementi ladini. Nell’area dolomitica le parlate di tipo ladino diventano prevalenti. E in questo quadro già colorato di tante varianti di dialetti che caratterizzano luoghi specifici, non mancano anche delle zone a sè stanti come è il caso di Sappada, che con la sua colonia pustero-carinziana, si presenta come isola germanofona. Se vuoi ascoltare e cimentarti nella comprensione di questa ricchezza linguistica, avvicinati al touch screen e seleziona il dialetto che preferisci. Se non riesci a capire il significato degli audio, non ti scoraggiare, troverai alla fine anche un breve riassunto del contenuto! Puoi immaginare che sul finire dell’Ottocento, la maggior parte delle persone si esprimesse in dialetto e l’italiano, che si apprendeva a scuola, fosse la lingua utilizzata nella situazioni ufficiali. C’era inoltre un altro momento nella vita di queste comunità in cui era necessario non limitarsi al solo dialetto. Era l’esperienza migratoria che richiedeva il confronto con stili di vita, abitudini e lingue diverse e che ha favorito, in queste zone, una precoce alfabetizzazione. Nella sala trovi esposta una lettera, scritta da una ragazzina di 14 anni di La Valle Agordina, che racconta al padre il suo lavoro di domestica presso una famiglia benestante di Milano: State pure tranquillo che io qui sto molto bene, damangiare ce ne molto e da lavorare ce ne poco. E non mi lasciano mai andare fuori sola sempre accompagnata la festa mi conducono a fare una passeggiata o a teatro e anche a Messa vado tutte le Domeniche. Noterai che nel testo c’è qualche errore grammaticale. In particolare salta all’occhio la quasi completa assenza della punteggiatura e la mancanza di suddivisione tra il “da” e “mangiare” che è legata alla trasposizione per iscritto di una forma orale e dialettale in cui damagnar è effettivamente percepita come un’unica parola.
11. I fili del racconto
L'undicesimo punto d'interesse è dedicato alle fiabe e favole locali.
Di fronte a te trovi l’Om selvarech, l’Uomo selvatico, completamente ricoperto di licopodio. E’ protagonista di numerose leggende, in gran parte dell’arco alpino, di mascherate carnevalesche o di riti di risveglio della primavera come quello di Pontalto nell’Agordino. A metà tra uomo e natura, vive in anfratti o in grotte nel bosco, ma fa spesso incursione negli spazi degli uomini, svelando, a volte, i segreti legati alla caseificazione. Avrebbe ad esempio insegnato agli uomini come filtrare il latte usando proprio il licopodio, che non a caso in dialetto è chiamato erba da col (erba per filtrare). Anche il Mazarol/Salvanèl, piccolo, vestito di rosso, capace di far perdere nel bosco chi calpesta inavvertitamente la sua impronta, nelle leggende è rappresentato come eroe culturale capace di insegnare agli uomini alcune tecniche di caseificazione e di allevamento. Vorrei ricordarti che le esperienze d’incontro con questi esseri fantastici mi sono state raccontate dalle persone anziane come fatti veri, realmente accaduti a loro o ai loro parenti. Tra l’altro rimangono numerose tracce nella toponomastica locale. Penso ad esempio ai numerosi luoghi d’acqua legati alle Anguane, donne bellissime, vestite di bianco, con i piedi caprini, che potevano unirsi agli uomini e avere dei figli. Ma l’infrazione di un divieto (per esempio chiamarle Anguane pié di capra) ne determinava la scomparsa. Ho cominciato a raccogliere fiabe quando avevo 23 anni, per la mia tesi di laurea, e rimanevo incantata di fronte a narratori abilissimi, capaci di coinvolgere il pubblico attraverso l’uso sapiente della voce, la gestualità e la mimica facciale, come vedi nella sequenza di immagini collocate nella sala del racconto. Fiabe di re, principi, cavalieri, come quella del Drago dale 7 teste oppure destinate ai bambini come quella del Barba Nason venivano raccontate nelle stalle, riscaldate dai bovini, durante i lunghi mesi invernali, nei filò. Il termine richiama le attività di filatura che impegnavano le donne durante le veglie serali. Nella parte settentrionale del territorio, dove c’era una maggiore disponibilità di legna da ardere, i filò si tenevano nelle stue, stanze rivestite di legno con una stufa in muratura. Se vuoi, puoi ascoltare con le cuffie qualche esempio di fiaba o leggenda, oppure puoi continuare la visita spostandoti verso la sala dei suoni.
12. Le trombe effimere
Il dodicesimo punto d'interesse è dedicato alle canzoni popolari bellunesi e ai suoi strumenti.
Questi strani oggetti appesi nella sala della musica, sono delle trombe di corteccia che venivano costruite dai ragazzi come passatempo. I legni più usati erano rametti di sambuco, di castagno, di frassino e di salice selvatico. Per le ance si adoperava frequentemente la corteccia di salice e di gelso. Si potevano costruire solo in primavera: infatti solo in quella stagione, quando le piante le va in amor, si riesce a distaccare la corteccia dal ramo. Con il manico del coltello, per facilitarne il distacco, si batteva ripetutamente il ramo, recitando una magica filastrocca come questa: Trata trata bel subiòl sula riva del Caròl se no ti te intraterà el diaul te fisserà sula riva del sagrà. Le trombe si ottenevano avvolgendo a spirale la corteccia e fissandola con dei chiodini in legno. Alla sommità si inseriva l’ancia. Nonostante la laboriosità della costruzione, queste trombette sono però strumenti effimeri perché sono in grado di suonare solo per qualche giorno, quando la corteccia è fresca. Se sei curioso di capire come venivano fatti, nel touch screen è presentato un video che ritrae con numerosi particolari, i gesti tecnici della costruzione. Nella semplicità dell’oggetto che viene costruito, si cela un saper fare, un’abilità manuale e una competenza tecnica caratteristica delle generazioni passate. Sempre nel touch screen puoi ascoltare alcuni brani dei canti popolari polivocali raccolti nel territorio oppure puoi sentire il suono di alcuni tra gli strumenti esposti come il rumore delle raganelle a manovella (sgrèe o bàtole o ràcole), che sostituivano il suono delle campane il giovedì e venerdì santo. E se ti vien voglia di un po’ di ritmo, non perderti le note della polka, la musica da ballo che in Comelico si balla nella forma saltata e viene chiamata la vècia. E’ un ballo caratteristico, che anima il Carnevale durante l’inverno, e che viene eseguito dalle maschere guida.
13. L’emigrazione in Brasile
Il tredicesimo punto d'interesse racconta l'emigrazione bellunese in Brasile.
Penne di pappagallo, pinoli dell’araucaria, bananeti rigogliosi… lo capisci subito, questa sala racconta di luoghi lontani, eppure così vicini alla storia dei paesi del Bellunese e del Nord Italia in generale. Siamo in Brasile, meta prescelta dai contadini veneti dell’Ottocento, come destinazione per una nuova vita. Questa storia ha inizio quando il Governo Imperiale del Brasile promosse, a partire dalla prima metà del secolo, la colonizzazione di vasti territori al sud della nazione, favorendo l’arrivo dei contadini europei, e dipingendo il Brasile come un “paese di cuccagna”, dove chiunque avrebbe potuto cambiare il corso del proprio destino. Le aspettative erano alte e l’idea di poter avere della terra da coltivare faceva gola a molti. Quelle valigie e bauli in cui veniva stipata tutta la vita di chi partiva, con gli effetti personali, i pochi oggetti della quotidianità, qualche strumento del lavoro e anche i semi che avrebbero garantito di perpetuare in terra brasiliana i sapori di casa, narrano da soli questa incredibile avventura. Dopo un viaggio su navi a vela o a vapore, che poteva durare fino a quaranta giorni, gli emigranti sbarcavano a Rio de Janeiro e da lì, via mare, raggiungevano gli stati meridionali. Nei centri di colonizzazione ricevevano ciascuno il proprio lotto di terra. La lottizzazione, fatta a tavolino, senza tener conto della morfologia dei terreni, riguardava aree ancora coperte da foresta vergine. Prova ad immaginare lo spaesamento di questi uomini e donne, bambini e vecchi, di fronte a piante e animali sconosciuti. Per questo il periodo iniziale fu per molti drammatico: la deforestazione comportò grandi fatiche e sofferenze, l’isolamento gettò le famiglie nello sconforto, l’assistenza del Governo Italiano fu pressoché inesistente. Ma non si persero d’animo e la presero quasi come una scommessa e in pochi anni riuscirono ad avere vigneti e campi di granoturco e frumento, deforestando il territorio. Quando per la prima volta andai in Brasile, nello stato del Rio Grande do Sul, nel 1977, ricordo ancora lo stupore iniziale nel leggere i cognomi veneti nelle insegne dei negozi, nel trovare luoghi come Nova Venezia, Nova Trento, Val Feltrina, Treviso in un paesaggio sub-tropicale, di visitare le cappelle dedicate ai santi e alle Madonne delle aree di partenza (la Madonna di Caravaggio, del Pedancino, di Monte Berico, San Vittore e Corona, San Romedio). Ma soprattutto di sentire nelle colonie rurali parlare el taliàn, un misto di dialetti veneti e portoghese, che in alcuni casi era l’unica lingua parlata dalle persone più anziane. Oggi il taliàn è riconosciuto come lingua minoritaria e la cultura delle aree di partenza, inizialmente negletta, viene valorizzata come elemento fortemente identitario. Nei ristoranti, accanto allo spiedo Churrasco dei gauchos brasiliani, si può trovare la polenta con la gallina in tocio e il radicchio condito con il lardo e l’aceto. I rapporti con l’Italia si sono molto intensificati e non è raro che anche qui al museo capitino discendenti di italo-brasiliani, i cui nonni erano partiti proprio da queste zone. Se ti avvicini alla colonnina audio, posta in fondo alla sala, puoi ascoltare un esempio di talian e di canti italiani che ancora si conservano nella campagne del sud del Brasile. Nelle prossime sale troverai altre storie legate all’emigrazione.
14. Le Balie da latte
Il quattordicesimo punto d'interesse racconta una storia troppo spesa dimenticata: quella delle balie da latte.
Ho scelto questa toccante testimonianza di Genoveffa De Boni Sartor, balia da latte a Torino nel 1930, che ho intervistato molti anni fa, per introdurre uno degli aspetti più drammatici di questa particolare emigrazione femminile. Dai primi decenni dell’Ottocento e fino agli anni Cinquanta del Novecento, giovani donne che avevano da poco partorito si recavano ad allattare, dietro compenso, i figli delle famiglie aristocratiche e borghesi delle città del Nord Italia. Questo significava lasciare a casa il proprio figlio di pochi mesi, che veniva precocemente svezzato con latte di mucca o di capra diluiti. Quando era fortunato, riceveva il latte di un’altra donna del paese. Purtroppo, come hai sentito dalle parole della balia, a volte succedeva che non riusciva a sopravvivere per problemi gastrointestinali. Alla balia lo si comunicava alla fine dell’anno dell’allattamento perché lo shock emotivo avrebbe potuto provocare la perdita del latte. Non erano quasi mai le donne a decidere di partire, ma i loro mariti o suoceri. Il latte era un bene prezioso e questa attività molto ben remunerata poteva cambiare le sorti della famiglia. Ti chiederai perché le signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia non allattavano. Era consuetudine delegare l’allattamento alle balie per non interrompere la propria vita sociale e mondana e per non rovinare il proprio corpo. Le balie venivano selezionate dai medici e, a partire dai primi anni del ‘900, da un apposito ufficio baliatico, istituito a Feltre, uno dei principali centri di emigrazione. La prova del latte spruzzando qualche goccia su un vetrino o su un’unghia era l’elemento decisivo per scegliere la nutrice: se il latte era buono rimaneva compatto. Immagina il dolore di questa madre al momento della partenza, il disagio per la forzata ritenzione del latte durante il viaggio, la difficoltà a inserirsi in un ambiente completamente diverso da quello a cui era abituata. Dopo un’ulteriore imbarazzante visita medica, la donna doveva fare un bagno e cambiare completamente il suo abbigliamento, spesso logoro e grossolano. Nella vetrina della sala sono esposti alcuni abiti delle balie, una sorta di divisa, con prevalenza cromatica del bianco, che già da lontano ne indicava l’appartenenza a una categoria molto particolare. Per la famiglia che la ospitava, la balia era un vero e proprio status symbol, da esibire nelle passeggiate quotidiane ai giardini, con gli svolazzanti grembiuli di tulle e pizzo, le camicie ricamate, i gioielli vistosi di filigrana e corallo. Il rientro in paese dopo l’anno di allattamento non era semplice, soprattutto per la difficoltà di ricucire i legami affettivi, allentati dalla lontananza, specie con i figli piccoli che non riconoscevano più la madre. Tra l’altro, molte balie si trattenevano nella stessa famiglia come balie asciutte, prolungando di molto l’assenza da casa. L’esperienza migratoria cambiava queste donne, che spesso avevano visto le più belle località di villeggiatura italiane ed erano vissute in ville e palazzi fastosi: parlavano l’italiano, sapevano cucinare, avevano accumulato esperienze e idee diverse. Il ricorso alle balie da latte raggiunse il suo acme nel periodo fascista, quando la chiusura delle frontiere ridusse l’emigrazione maschile, gettando molte famiglie in uno stato di prostrazione e di miseria. La diffusione del latte in polvere e le trasformazioni sociali contribuirono ad accelerare la fine di questa peculiare emigrazione, per noi oggi difficilmente concepibile, intorno agli anni Cinquanta del Novecento. Nella sala successiva potrai approfondire questo argomento, ripercorrendo la vicenda umana di una balia.
15. I figli da latte
Il quindicesimo punto d'interesse è speculare a quello precedente, parlando dei figli da latte.
Maria Polesana Canova era una contadina di Mugnai, un paesino vicino a Feltre, che nel 1906, dopo la nascita del primo figlio, si recò a Milano per allattare Luchino Visconti di Modrone. E’ stato possibile ricostruire la sua storia grazie alla collaborazione con il nipote, Angelo Canova, un venditore ambulante di frutta, che ha voluto donare al Museo fotografie, documenti, abiti, gioielli appartenuti a sua nonna, con l’intento di ricordarne la vicenda esemplare. A Milano, Maria riuscì ad instaurare un rapporto affettuoso e duraturo con la famiglia Visconti, soprattutto con Luchino, che sarebbe poi diventato il grande regista di film come il Gattopardo, Ossessione, Morte a Venezia. Questo anche grazie al fatto che prestò servizio a più riprese in casa Visconti come balia asciutta di Luchino e dei suoi fratelli e sorelle. In un libretto di devozioni che Maria portava sempre con sé sono conservati santini con le dediche del suo figlio di latte e ciocche di capelli di Luchino e dei suoi fratelli, nonché di Marisa Gnecchi Ruscone, figlia di un’importante famiglia di industriali della seta, che Maria allattò dopo la nascita della sua seconda figlia Giuseppina, nel 1909. Le balie si affezionavano tantissimo ai figli di latte, con cui si creava un rapporto profondo a compensazione del disagio per la mancanza del figlio naturale e degli affetti di casa, anche se la nostalgia e la tristezza diventavano compagne inseparabili di questa difficile professione. I rapporti tra la balia Maria e i suoi figli di latte continuarono fino alla sua morte. Ne sono testimonianza le numerose lettere, cartoline, fotografie. In una di queste che ritrae Luchino ventenne, la dedica recita: “Con tutto il mio affetto alla seconda madre”. Maria la teneva sopra il letto tra il crocifisso e Sant’Antonio. La balia, che affettuosamente veniva chiamata Canovaccio, partecipò a tutti i momenti più importanti della vita dei suoi figli di latte. Quando la mamma di Luchino Carla Erba Visconti morì nel 1939, le lasciò in eredità 5000 lire, una somma cospicua per l’epoca, che fa capire quanto fosse rispettata e benvoluta questa balia. La figlia di Maria, Giuseppina, che ho potuto intervistare, sorella di latte di Marisa Gnecchi Ruscone, fu a sua volta la balia da latte di Aldrigo di Castelbarco, cugino dei Visconti. Quando Maria morì, in età molto avanzata, Luchino mandò al suo funerale una corona di rose con la scritta “Alla mia indimenticabile Maria!”. Tra gli oggetti esposti nella sala dedicata alla balia Maria c’è un bellissimo tremolo da acconciatura, un fiore di filigrana d’argento dorato. Nella piccola sala adiacente, dedicata ai gioielli popolari, la prima vetrina è proprio riservata agli ornamenti delle balie.
16. I gioielli popolari
Il sedicesimo punto d'interesse è riservato ad un'esposizione di gioielli popolari.
Eccoci arrivati nel piccolo scrigno di tesori del museo! Trovi qui esposta una significativa collezione di gioielli popolari bellunesi, quasi tutti raccolti dalla nobildonna Rosetta Prosdocimi Bozzoli che nella prima metà del Novecento, cercò di salvare queste testimonianze di artigianato e di cultura, a rischio di sparizione. Il Museo ne ha acquistati dalla figlia circa 120 pezzi, mentre il resto della collezione si trova al Museo Civico di Belluno. Si tratta di uno dei corpus di gioielli popolari più importanti a livello nazionale. Osservando questi manufatti rimarrai stupito dalle competenze tecniche degli artigiani della filigrana e puoi immaginare che gioielli riuscissero a creare, ad esempio a Cortina, dove dal 1874 al 1894, era attiva una Scuola di Filigrana. Pensa che al giorno d’oggi quasi nessuno è più in grado di eseguire simili lavorazioni! La prima vetrina, che trovi entrando a sinistra, è dedicata alle balie da latte, che ricevevano in dono dai signori presso cui lavoravano alcuni gioielli vistosi come la collana di filigrana a grosse sfere d’argento dorato o gli spilloni da testa, che servivano a tenere fermo il fazzoletto. I gioielli sono testimonianza di consuetudini sociali radicate, legate alle fasi più rilevanti della vita: dal battesimo, alla cresima (in occasione della quale i santoli regalavano gli orecchini alle ragazzine, spesso solo “la mandorla”, cioè la parte superiore a cui si attacca il pendente, e gli orologi da taschino ai ragazzi), al fidanzamento (vincolante era il dono da parte della famiglia dello sposo degli spilloni da testa in argento, oppure del pendente a stella in filigrana), al matrimonio in occasione del quale i testimoni donavano gli anelli (vera, veréta o varéta). Quello che ti colpirà di più in questa collezione, saranno sicuramente gli ornamenti da acconciatura, quasi completamente scomparsi, utilizzati nell’abbigliamento festivo femminile almeno fino ai primi decenni del Novecento. Avvicinandoti alla vetrina puoi scorgere tra i gioielli del costume femminile, i tremoli, trèmoi, da testa in filigrana d’argento: aghi da acconciatura sulla cui sommità è fissata una molla a spirale che faceva oscillare un fiore o una farfalla, ogni volta che la donna camminava o muoveva il capo. Nell’Ampezzano, le ragazze nubili portavano un solo tremolo, le donne sposate quanti ne volevano, mentre nella Val Belluna esibire i trèmoi (infilati tra i capelli, sopra l’orecchio destro) significava comunicare la propria condizione di fidanzata o donna sposata, come le balie da latte, che li indossavano anche con l’abito da balia. Molti degli ornamenti avevano un valore propiziatorio, terapeutico, protettivo, talvolta legato al simbolismo cristiano, come le croci di filigrana, le corone del rosario di granata, le medaglie con simboli sacri. Gli orecchini con la foratura del lobo, attraverso cui si espellevano gli umori negativi, avevano anche una valenza apotropaica. La perdita dell’anello nuziale, metafora dell’unione matrimoniale, era ritenuta un fatto gravissimo. La potenza di questo simbolo ne giustificava anche un uso terapeutico: con la vera si “segnavano” tumefazioni, distorsioni, malattie della pelle. Anche se gli ornamenti d’acconciatura non si usano più, i gioielli sono ancora oggi simboli di appartenenza, di ricchezza, di bellezza. Ora sali le scale e vai nella sala in fondo a sinistra.
17. Le stalle e i gesti di cura
Il diciassettesimo punto d'interesse è dedicato alle stalle a alla cura delle mucche.
Ho ancora negli occhi le piccole stalle semibuie, spesso con il soffitto a volte, presenti nelle case contadine, dove c’erano uno-due-al massimo tre bovini. La mangiatoia in legno, lo spazio per i vitelli, l’apertura nel soffitto da cui scendeva il fieno per alimentare gli animali, l’odore acre che impregnava gli abiti. Sopra la porta la statuetta di Sant’Antonio da Padova (Santantoni da stala) o il crocifisso, all’esterno, sul battente della porta un’immagine di Sant’Antonio Abate o San Bovo, come quelle esposta in questa sala. Le mucche erano una risorsa importantissima e un parametro sicuro per valutare la ricchezza delle famiglie: fondamentali per la fertilizzazione dei terreni, forza lavoro nei campi e per il trasporto, merce di scambio, produttrici di latte, fonte di riscaldamento durante i lunghi inverni. Le fiere del bestiame erano importanti occasioni di compravendita degli animali e di altri prodotti agricoli: a Belluno, per San Martino, c’era la “Fiera del Bastiam”, a Feltre si teneva a “San Vettoret”, in Valle di Zoldo in occasione della Madonna del Rosario, in Comelico in concomitanza con la festa dei Santi e i Morti. Questi animali godevano di attenzioni particolari e venivano considerati come delle persone, ciascuna con un proprio nome e un proprio carattere. Gesti di cura quotidiani come la strigliatura per grattare via le incrostazioni di sterco e terra e poi la lisciatura del pelo con la brusca, che trovi in questa sala, l’alimentazione con il fieno giusto, l’abbeveramento alla fontana. Cure che si intensificavano in caso di malattia, ma soprattutto in occasione del parto della mucca. Allora si interveniva con corde morbide per facilitare l’uscita del vitellino, fasce per evitare il prolasso uterino, una coperta per riscaldare la mucca, a cui si somministravano cibi sostanziosi, talvolta anche un po’ di grappa. Le numerose attenzioni riservate ai bovini consolidavano rapporti di affinità, quasi di “intimità”, con gli uomini. Un po’ nascosta noterai la foto che ritrae un momento di grande tenerezza in cui un bimbo si è addormentato appoggiato al suo vitellino, in cerca del tepore dell’animale. Hai mai provato a mungere? Non è un’attività così semplice ma quando viene ripetuta due volte al giorno, diventa quasi automatica. Una volta erano soprattutto le donne a farlo, dopo aver pulito con l’acqua o con il fieno la mammella della mucca, praticando un massaggio che richiama la suzione del vitello (invenàr el lat). Per evitare che la mucca sporcasse il latte con la coda, questa si legava o si faceva tenere a un bambino. Sono gesti ormai scomparsi negli allevamenti intensivi, dove la mungitura è automatica e il rapporto con gli animali molto meno coinvolgente. Seguiamo, nella sala successiva, il ciclo del latte.
18. Gli stampi da burro e il ciclo del latte
Il diciottesimo punto d'interesse è riservato agli stampi da burro e al ciclo del latte.
In questa sala sono esposti numerosi stampi da burro ricavati dal legno di pero o di melo. La scelta del materiale non è casuale visto che questi tipi di legno non rilasciano odori e hanno una fibra molto compatta che evita l’assorbimento dei liquidi. Osserva le diverse tipologie: sono frutto della sapiente lavorazione artigiana dell’intaglio e presentano decorazioni con motivi floreali (tra cui spesso spiccano la stella alpina e le rose), con mucche al pascolo e donne che portano il latte. Fra questi ce n’è uno decisamente originale con i simboli dei diversi partiti. Negli stampi è inciso anche il nome della latteria. Il burro fu per molti secoli il prodotto più pregiato del comparto lattiero-caseario, e fino ai primi anni del Novecento veniva commercializzato anche grazie al trasporto con le zattere lungo il Piave, verso le città di pianura, arrivando fino a Venezia. In ambito domestico si otteneva facendo affiorare la panna in apposite bacinelle di legno, terracotta o di alluminio (mastèla da lat, crèp del lat), di cui puoi osservare alcuni esemplari. La panna veniva quindi tolta con uno scopino o con la spannarola e versata nella zangola a pistone o in quella rotatoria a manovella. Era anche possibile sbattere la panna con la frusta in un secchio o in una bottiglia di vetro agitata ripetutamente. Una volta ottenuto, il burro veniva separato dal latticello, lavato accuratamente, impastato e quindi confezionato in panetti comprimendolo negli appositi stampi. Se la quantità era ridotta si faceva una palla e si metteva in un catino d’acqua al fresco. Ma in genere, vista la sua deperibilità, il burro veniva cotto e conservato in recipienti di terracotta o di pietra. Devi sapere che per consentire la produzione quotidiana di burro e formaggio, soprattutto a quei contadini che avevano pochi capi di bestiame, furono fondate a fine Ottocento le latterie sociali cooperative, ad opera di Don Antonio della Lucia di Canale d’Agordo. Nel nostro territorio, fino agli anni Trenta del ‘900, quando venne istituita una scuola di casari, non vi erano formaggi particolarmente rinomati. Si producevano nelle latterie cooperative, nelle malghe e nelle casere di pre-alpeggio. Quando c’era un’eccedenza di latte, le donne preparavano il formaggio in casa con la stufa a legna. Sul focolare trovi la caldaia di rame impiegata per il formaggio e gli strumenti utilizzati per la caseificazione. Sopra il camino sono esposte forme lignee forate o cestelli di vimini per scolare la ricotta (puina, pugna), che si preparava mescolando il siero avanzato nella caseificazione con il latticello del burro e con l’aggiunta di siero inacidito (agre). La ricotta veniva in parte essiccata o affumicata. Ti ricordi il nome dell’erba con cui è ricoperto l’Om salvarech? Nella vetrina c’è un colino di legno con un po’ di licopodio (erba colìn, erba da còl) che serve appunto a filtrare il latte, come avrebbe insegnato a fare l’Uomo Selvatico.
19. L’alpeggio e la fienagione
Il diciannovesimo punto d'interesse racconta come venivano sfamate le mucche e non solo.
Hai idea di quanto fieno servisse a una mucca in un mese? Circa 4 quintali, una quantità enorme! Ed è per questa ragione che la cura dei prati, la fienagione e l’alpeggio erano così importanti nel nostro territorio. Molti contadini mi hanno raccontato di incursioni nei luoghi più impervi per riuscire a strappare un po’ d’erba, con il falcetto, di pericolose discese invernali con le slitte cariche di fieno accumulato nei terreni comuni in alta montagna (le sort), delle fatiche che comportava la fienagione con il primo taglio, considerato il migliore (fén), e il secondo (dórch) e nel fondovalle e nell’area prealpina, il terzo taglio in settembre (terzalìn), perfino il quarto in ottobre (quart) nelle zone più temperate. C’erano addirittura squadre di falciatori abilissimi che venivano richiesti per la fienagione nelle regioni vicine, come quelli nella grande immagine che fa da sfondo alla vetrina. Per consentire ai contadini di svolgere le attività agricole e la fienagione, i bovini, dopo un periodo di pre-alpeggio in maggio, venivano affidati ai malgari da giugno a settembre. I pascoli, nell’area alto bellunese, erano di uso comunitario e venivano gestiti dalle Regole o dalle vicìnie. Ancora fino al secondo dopoguerra era contemplato sia il pascolo di monte, in apposite malghe, sia il pascolo giornaliero con l’affidamento degli animali a un pastore oppure a una famiglia, a turnazione. Nella Valbelluna era praticata la conduzione del bestiame nei pascoli privati di mezza montagna e quella associativa in quota, nei pascoli di proprietà comunale, con un mandriano (capo vachèr), che in genere aveva stipulato un contratto di locazione con il Comune. Le mandrie salivano in montagna in giugno, spesso il giorno di Sant’Antonio da Padova. A Rivamonte Agordino proprio quel giorno era consuetudine prendere in chiesa i cordoncini di filo benedetti, come quelli che ci sono appesi alla parete, che venivano annodati alle corna dei bovini per proteggerli. La discesa dagli alpeggi (desmontegàda), che avveniva frequentemente a settembre, il giorno di San Michele, era una festa e i bovini venivano talvolta addobbati con fiori e nastri e ricevevano speciali benedizioni. Per dare il ritmo della salita e della discesa la mucca in testa alla mandria indossava un grosso campanaccio, ma in generale i campanacci erano preziosi per consentire ai malgari di individuare facilmente i bovini durante l’alpeggio, specie nelle giornate di nebbia e di pioggia. In questa sala sono esposti numerosi campanacci: alcuni sono di bronzo (le brondine) e hanno un suono argentino, gli altri sono di ferro o di ottone (campanaz) e hanno un suono più cupo. Puoi provare a suonarli se vuoi! Oggi le mucche salgono in montagna con i camion e molte malghe hanno aperto uno spazio di ristorazione e di vendita dei prodotti. Le greggi ovine dei pastori transumanti risalivano gli alpeggi, occupando i pascoli più impervi, impraticabili per le mucche. Nella discesa, sfruttavano ancora per qualche settimana le ampie zone pascolive intorno alle malghe ormai vuote e poi gradatamente scendevano verso valle e poi verso la pianura veneta e friulana. Se vuoi ricevere altre informazioni sulla pastorizia, fermati alla prossima vetrina fuori della sala dell’alpeggio.
20. La pastorizia
Il ventesimo punto d'interesse è interamente dedicato alla pastorizia.
La pastorizia da queste parti è un’attività che affonda le radici nei secoli. In particolare nel territorio di Lamon, dove addirittura c’è una razza di pecora che prende il nome dal paese. Ho intervistato molti pastori, ascoltando storie incredibili legate a un mestiere difficile, nel quale erano fondamentali l’astuzia, la capacità di orientarsi nello spazio e di contrattare con i contadini e le forze dell’ordine quando le pecore invadevano i campi coltivati. Proprio per non farsi capire dagli altri e comunicare tra di loro cose importanti, usavano un gergo di mestiere (le pecore erano le copane, il pastore il baio, ecc). La vita più dura era quella dei remenganti, con greggi di 500-1000 pecore, che vivevano in continuo spostamento, senza mai avere un luogo fisso dove fermarsi. Da cui l’espressione andare a remengo, cioè vagabondare. Riesci ad immaginare cosa significasse passare la giornata sotto le intemperie, al riparo solo di un tabarro di lana follata, cioè infeltrita, come quello esposto in vetrina? Cosa significasse dormire all’addiaccio, “All’abergo alle stelle”, dicevano i pastori, su una pelle di pecora? Rispetto alla maggior parte delle transumanze presenti in Italia, praticate da pastori uomini, qui partecipavano anche le donne e i bambini. Storie di fatiche per cercare un focolare dove fare la polenta portandosi sulle spalle un paiolo pesante, di sofferenze, di donne che partorivano durante la transumanza degli animali, in luoghi di fortuna. Chi aveva piccole greggi, al massimo ottanta capi, riusciva a stipulare una sorta di tacito accordo, che si rinnovava di anno in anno, con i contadini di pianura. Così, in autunno, il gregge e la famiglia del pastore scendevano in una casa di pianura (posta, da cui il nome postaroi di questi pastori), dove potevano usufruire del fienile o della stalla dove dormire, in cambio della concimazione dei terreni della famiglia ospitante. Oggi gli ultimi pastori di Lamon si sono sedentarizzati. Quelli che vedi passare nel nostro territorio sono soprattutto trentini, con aiutanti macedoni o albanesi. La maggior parte delle pecore è ancora quella di razza lamonese. La sostanza non cambia, ma la sfida è quasi più grande. Non è uno scherzo farsi spazio tra la massiccia urbanizzazione della pianura veneta, tra i divieti di pascolo e le coltivazioni intensive, e condurre una vita controcorrente, seguendo i ritmi lenti in una società frenetica. Ma anche cercando nuove nicchie di mercato, per esempio tra i musulmani immigrati, che tradizionalmente consumano carne ovina. Vai ora verso la sala delle galline.
21. La cura delle galline
Il ventunesimo punto d'interesse è dedicato alla pollicultura.
Hai sentito? Questi sono alcuni dei richiami alle galline (pite, pìtes, piti) che puoi continuare ad ascoltare in questa sala selezionandoli nella postazione audio col tasto destro e confermando con il sinistro. Li ho registrati con l’aiuto dell’antropologa Iolanda Da Deppo, in diverse zone del territorio bellunese. Pur essendo per lo più suoni onomatopeici spesso simili tra loro, si distinguono le differenze nei ritmi e nelle frequenze tra un paese e l’altro. Avrai notato i termini pìcole e bèle, aggettivi scelti non in maniera casuale, a sottolineare il rapporto che si instaurava tra donne e galline: infatti la cura quotidiana di questi animali era un’attività esclusivamente femminile e comportava una serie di minute e ripetute pratiche quotidiane, di piccoli gesti e attenzioni, di contatti ravvicinati che consentivano l’instaurarsi di rapporti di complicità e di comprensione tra donne e galline: le pite “chiamano” quando sono trascurate e manifestano gioia all’arrivo della padrona. Le donne erano depositarie di una serie di saperi naturalistici come il prevedere dalla forma dell’uovo il sesso del pulcino, che si ipotizzava fosse maschio se l’uovo era appuntito, femmina se l’uovo si presentava più arrotondato. Se vuoi provare anche tu a indovinare il sesso del nascituro, osserva le uova esposte sotto la vetrina: noterai certamente la differenza di forme! Esposte nella teca, ci sono delle uova di legno o di pietra dipinte di bianco (ìndes, gnal, nivàl, nivaiol). Sai a cosa servivano? Indicavano alle galline dove deporre le uova, per evitare di doverle cercare nei posti più impensati. Questa pratica mostra che la gallina era ritenuta un animale intelligente, capace di scegliere in base a cosa le veniva suggerito, e smentisce il famoso detto “Cervello di gallina!” A volte però le venivano inflitti anche una serie di castighi, talvolta molto crudeli: la riduzione delle ali con le forbici per impedire che volassero fuori dal recinto, il taglio e la bruciatura del becco per far perdere il vizio di mangiarsi le loro uova, la legatura della chioccia per non farla allontanare dalla cova, la sua immersione in acqua, la permanenza al buio sotto una gerla rovesciata che puoi osservare qui esposta, o la somministrazione di vino, per dissuaderla dal chiocciare. Altre volte invece erano coccolate e ricoperte di molte attenzioni, come quando, in alcune zone di montagna, venivano portate vicino al focolare durante i mesi più freddi, nella speranza che continuassero così la deposizione. La vera risorsa per le donne erano infatti le uova, non solo perché fornivano proteine nell’alimentazione quotidiana, ma anche perché costituivano una merce di scambio importante, che consentiva alla padrona di casa di disporre di un minimo di autonomia economica all’interno della famiglia: si barattavano nei negozi con altri alimenti, si vendevano nei mercati o nelle fiere, si donavano ai malati, alle partorienti e al prete quando veniva a benedire gli animali. E ora dagli uccelli domestici, come sono le galline, passiamo agli uccelli selvatici e agli altri animali che popolavano questi territori.
22. Lo spaventapasseri e gli animali selvatici
Il ventiduesimo punto d'interesse e dedicato al rapporto tra l'uomo e gli animali selvatici.
Lo spaventapasseri, posizionato nei campi o negli orti per proteggere le colture dagli animali selvatici è largamente presente nel territorio bellunese e viene designato anche nel dialetto con numerose denominazioni: dóre, spaventàgle, paiàtho, pupo de baròte, comparétol. Espressione della creatività popolare, del riutilizzo di oggetti e materiali, si colloca tra lo spazio domestico e selvatico ed è per questo carico di un valore simbolico, quasi un mediatore tra i due mondi. Al giorno d’oggi continua ad essere ancora presente nei campi, rivisitato nelle fattezze, spesso allestito con strumenti moderni, ma pur sempre frutto di un’inventiva spontanea. Questo che stai osservando proviene da Livinallongo del Col di Lana e, al posto delle mani, ha le lame delle falci che servono per produrre dei rumori con lo spostamento dell’aria e renderlo quindi animato. In questa sala, oltre alla grande immagine dell’ultimo lupo della provincia di Belluno, trovi trappole e tagliole che venivano posizionate nei luoghi di passaggio, nelle soffitte e nelle cantine, negli orti, vicino ai pollai, e che comportavano la cattura e la morte dei malcapitati (volpi, tassi, faine, topi, talpe), alcuni dei quali venivano cacciati sistematicamente per ricavarne pelli da vendere. Il rapporto costante con i selvatici fa sì che anche nel patrimonio orale si siano conservati tanti modi di dire come Te sofia come na bèrola!, “Soffi come una donnola!”, che viene rivolto alle donne che sbuffano di continuo, ma anche Te sé an pore merlo!, “Sei un povero ingenuo!”, rivolto ad una persona non particolarmente perspicace. Ci sono anche proverbi che rivelano l’attenta conoscenza delle abitudini dei selvatici a cui si sovrappone, per esempio, il calendario dei lavori agricoli: Co l cucuc l canta su la rama nuda, ògni grìgola vién madùra, se l canta su la rama monda, la biava abonda, “quando il cuculo canta sul ramo spoglio maturano tutte le pannocchie, se canta sul ramo senza foglie, ci sarà abbondanza di biade”. Gli animali sono spesso protagonisti anche di leggende, filastrocche, scioglilingua e modi di dire che puoi trovare nell’album esposto in questa sala. Puoi per esempio, provare ad esercitarti con questo scioglilingua per familiarizzare con la sonorità del dialetto locale: Al dis al bis al tass, te dae an pugn sul nass, el diss al tass al bis, te dae proprio fiss. L’uccellagione con il ricorso a lacci, archetti, panie col vischio, reti, cerbottane era un’attività diffusa e consentiva, seppur limitatamente, di arricchire la magra dieta quotidiana. Molto particolare era la caccia con la civetta viva e il vischio, di cui puoi vedere esposti gli strumenti di cattura. L’uccellagione si praticava anche nei roccoli, strutture circolari o semicircolari, in genere di alberi, in mezzo ai quali venivano inserite le reti e collocate le gabbie con gli uccelli da richiamo. Costruiti in posizioni strategiche, lungo le direttrici delle correnti migratorie, consentivano la cattura di migliaia di uccelli, destinati alla vendita sul mercato. Nei boschi, insieme agli animali selvatici vivevano e lavoravano carbonai e boscaioli che incontreremo nella prossima sala.
23. I ramponi e il lavoro nel bosco
Il ventitreesimo punto d'interesse è dedicato al duro lavoro nei boschi.
Se ti metti ad ascoltare, questo oggetto potrebbe parlare da solo: narra di fatiche, di lavori scomparsi, di uomini abituati a mestieri durissimi e rievoca anche l’economia della montagna, dove i boschi erano una risorsa fondamentale. Questi ramponi venivano attaccati sotto la suola degli scarponi ed erano di grande aiuto nel lavoro di diboscamento. Specialmente quando, dopo l’abbattimento e la scortecciatura, i tronchi diventavano scivolosissimi ed era necessario portarli a valle attraverso una fitta rete di risine e canaloni, o aiutati da grandi slitte o ripidi fili a sbalzo. Quando era possibile, si sfruttava la corrente dei torrenti, utilizzando gli arpioni (anghièr, angèr) dalla riva, per districare i tronchi bloccati tra i sassi. Qui ce ne sono alcuni esposti e noterai i lunghi manici, per condurre queste manovre più agevolmente. Ma il bosco non era frequentato solo dagli uomini, dalle squadre di boscaioli, con grandi competenze, o di carbonai, che vivevano per lunghi periodi in questi luoghi naturali. Donne e bambini si recavano infatti con regolarità nei sottoboschi, nelle radure e nei prati di montagna, alla ricerca di erbe, frutti selvatici o animali per integrare la dieta quotidiana. Le donne, in particolare, riconoscevano innumerevoli piante spontanee, commestibili o terapeutiche, distinte da nomi dialettali significativi. I boschi di cui ti sto parlando erano ben diversi da quelli che oggi caratterizzano il paesaggio alpino e prealpino. Se ti affacci alla finestra, ti accorgerai che ormai gli alberi hanno invaso i pascoli e i prati di montagna. Sono luoghi selvaggi, fitti, cresciuti disordinatamente, dove raramente incontri qualcuno che va a tagliare legna. Almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, il bosco era invece uno spazio addomesticato, curato e ordinato, meta ordinaria da parte delle comunità locali, che ne conoscevano gli anfratti, davano i nomi alle zone più caratteristiche, ordinavano questo spazio a seconda delle risorse, in un’ottica non di predazione ma di mantenimento e rigenerazione della natura, di certo non dettata da uno spirito ecologico, ma dalla necessità di un rapporto proficuo e duraturo negli anni. Ora spostati nel corridoio, perché vorrei raccontarti qualche segreto degli uomini del bosco. Hai presente quante specie di alberi e arbusti ci sono in un bosco e quindi quanti tipi di legno ci sono a disposizione? Le generazioni che ci hanno preceduto conoscevano molto bene qualità e possibili usi delle diverse piante, conoscenze che in parte sono andate perdute.
24. La scatola della farina e la xiloteca
Il penultimo punto d'interesse mostra alcune ultime chicche: la scatola della farina e la xiloteca.
Avvicinati a questo oggetto e passa delicatamente le dita sulla superficie. Sembra incredibile che dalla rusticità di un tronco, degli abili artigiani riescano a ricavare dei manufatti così lisci e regolari. Questa è una scatola per conservare la farina, costruita in legno di faggio, che risulta particolarmente adatto ad essere curvato e agli usi in cucina, in quanto non modifica il sapore degli alimenti. L’hanno costruita le mani sapienti dei Cimbri, una piccola comunità che si è stanziata nel XVIII secolo nella foresta di faggi del Cansiglio, specializzandosi nella costruzione di scatole, setacci e altri oggetti di legno. Avrai ormai capito, attraverso la visita alle sale del museo, che ogni legno ha delle caratteristiche speciali e tanti tra gli oggetti che hai potuto conoscere sono stati costruiti con questo materiale, che era sicuramente il più diffuso. Ma non ti illudere che qualsiasi essenza vada bene per costruire un oggetto in particolare. Se nella xiloteca riesci ad individuare il corniolo, ad esempio, devi sapere che ha una fibra durissima, tanto che l’espressione popolare “Te se come n cornolèr!” viene riferita alle persone forti e resistenti. Ecco, con questo legno si costruivano i denti del rastrello, ma non era adatto ad oggetti più grandi essendo un piccolo arbusto. Se hai ancora un po’ di tempo puoi fermarti nella piccola sala video, dove ci sono numerosi filmati riferibili alle cose che hai visto nelle diverse sale del museo e dove il racconto della Caza selvarega da parte di un’abilissima narratrice come Alma Dall’Osto, ti lascerà senza parole. Oppure puoi scendere le scale di legno e avviarti all’uscita.
25. Scale – il campo e l’orto didattico
L'ultimo punto d'interesse è dedicato alla parte esterna del museo.
La visita è terminata. Puoi uscire dal museo e andare a curiosare il campo didattico, il frutteto e l’apiario scuola. Il campo è stato realizzato in collaborazione con la scuola Media di Cesiomaggiore, dove i ragazzi, seguiti dagli insegnanti e da alcuni genitori e nonni, seminano, curano e raccolgono varietà di cereali, leguminose e ortaggi coltivati nei decenni passati nel territorio bellunese e utilizzati nell’alimentazione tradizionale (orzo, farro, frumento, fava, rape, piselli e diverse varietà di fagioli). Anche nelle modalità di impianto sono state recuperate tecniche usate nel territorio (consociazione mais-fagioli, rotazione del terreno, coltivazione delle patate nel fieno). L’impianto del piccolo frutteto è stato possibile grazie alla collaborazione con l’Associazione Spazi in Frutto e raccoglie alcune varietà antiche di mele e pere. In prossimità del campo didattico è stata installata una camera di volo, costruita dagli apicoltori dell’Associazione l’Aperina di Cesiomaggiore. Questo apiario scuola, inaugurato nel 2012, viene usato dagli apicoltori per illustrare, su richiesta, soprattutto ai bambini, la vita delle api, il funzionamento dell’alveare e le differenti qualità di miele prodotto nelle Dolomiti Bellunesi.
Museo Etnografico della Provincia di Belluno
Itinerario completo
Lingua dell'itinerario:

01. Ingresso e presentazione del museo

02. Il giardino delle rose antiche

03. La collezione etnografica Bepi Mazzotti

04. Cucina

05. Secchiaio

06. I pestapapaveri

07. Sala Biodiversità Coltivata

08. La gerla e le fatiche del pendio

09. Lo slittino

10. Segni e parole

11. I fili del racconto

12. Le trombe effimere

13. L’emigrazione in Brasile

14. Le Balie da latte

15. I figli da latte

16. I gioielli popolari

17. Le stalle e i gesti di cura

18. Gli stampi da burro e il ciclo del latte

19. L’alpeggio e la fienagione

20. La pastorizia

21. La cura delle galline

22. Lo spaventapasseri e gli animali selvatici

23. I ramponi e il lavoro nel bosco

24. La scatola della farina e la xiloteca

25. Scale – il campo e l’orto didattico
Itinerario completo
Museo Etnografico della Provincia di Belluno
Questo itinerario è dedicato al Museo Etnografico della Provincia di Belluno e ai suoi cimeli unici.
Lingua dell'itinerario:
Percorso di visita

01. Ingresso e presentazione del museo

02. Il giardino delle rose antiche

03. La collezione etnografica Bepi Mazzotti

04. Cucina

05. Secchiaio

06. I pestapapaveri

07. Sala Biodiversità Coltivata

08. La gerla e le fatiche del pendio

09. Lo slittino

10. Segni e parole

11. I fili del racconto

12. Le trombe effimere

13. L’emigrazione in Brasile

14. Le Balie da latte

15. I figli da latte

16. I gioielli popolari

17. Le stalle e i gesti di cura

18. Gli stampi da burro e il ciclo del latte

19. L’alpeggio e la fienagione

20. La pastorizia

21. La cura delle galline

22. Lo spaventapasseri e gli animali selvatici

23. I ramponi e il lavoro nel bosco

24. La scatola della farina e la xiloteca

25. Scale – il campo e l’orto didattico
Museo Etnografico della Provincia di Belluno
Itinerario completo
Lingua dell'itinerario:

01. Ingresso e presentazione del museo

02. Il giardino delle rose antiche

03. La collezione etnografica Bepi Mazzotti

04. Cucina

05. Secchiaio

06. I pestapapaveri

07. Sala Biodiversità Coltivata

08. La gerla e le fatiche del pendio

09. Lo slittino

10. Segni e parole

11. I fili del racconto

12. Le trombe effimere

13. L’emigrazione in Brasile

14. Le Balie da latte

15. I figli da latte

16. I gioielli popolari

17. Le stalle e i gesti di cura

18. Gli stampi da burro e il ciclo del latte

19. L’alpeggio e la fienagione

20. La pastorizia

21. La cura delle galline

22. Lo spaventapasseri e gli animali selvatici

23. I ramponi e il lavoro nel bosco

24. La scatola della farina e la xiloteca

25. Scale – il campo e l’orto didattico