Itinerario completo studenti
Questo itinerario è dedicato agli studenti che vogliono scoprire il Museo delle Scienze Archeologiche e d'Arte dell'Università di Padova.
Museo: Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte dell'Università di Padova
L'atrio di Palazzo Liviano e statua di Arturo Martini
Questa sezione è dedicata all'atrio di Palazzo Liviano nel pieno centro cittadino e alla famosa statua "Tito Livio" di Arturo Martini.
L’edificio in cui ci troviamo è situato nel centro dell’antica Padova Romana e dove, nel 1338, Umbertino da Carrara fece costruire la monumentale Reggia dei Carraresi di cui oggi rimane solo la Loggia dell’Accademia e la Sala dei Giganti. Palazzo Liviano, costruito negli anni ‘30 dall’architetto Gio Ponti, ospita alcuni dipartimenti di area umanistica dell’Università di Padova. Il museo che risiede qui rappresenta uno dei rari esempi in Italia, tra i due conflitti mondiali, di spazio architettonico progettato appositamente per tale scopo. Nell’atrio dell’edificio, si può ammirare un grande affresco realizzato nel 1939 da Massimo Campigli. Egli si ispirò al tema della continuità della civiltà e della cultura classica, esaltando gli insegnamenti derivanti dallo studio approfondito dell’Antichità. L’affresco si legge da sinistra a destra tenendo conto della disposizione su più livelli. È possibile riconoscere figure già note come il rettore Carlo Anti, l’architetto Gio Ponti e il pittore stesso. Un ulteriore elemento che cattura l’attenzione è il “Tito Livio” di Arturo Martini, scolpito nel 1942. Questa scultura, posizionata sulla destra rispetto all’entrata, rappresenta lo storico romano - che per primo narrò le origini mitiche di Padova - come un poeta sognatore seduto sulle rocce all'aperto, estraneo a tutto.
La collezione Mantova Benavides: tra reperti archeologici e calchi rinascimentali
Questa sezione si sofferma sulla collezione Mantova Benavides: tra reperti archeologici e calchi rinascimentali.
La prima sala di questo museo vi invita a fare un viaggio nel tempo, all’interno di un “Gabinetto cinquecentesco”, in cui si trova la collezione Mantova Benavides. L’allestimento di questa sala, infatti, vuole ricordare l’allestimento originale di questa collezione cinquecentesca che, anche se ci è pervenuta soltanto in parte, è tra le poche ancora esistenti. Nella vetrina principale e nello splendido armadio-biblioteca ancora conservato, sono esposti senza soluzione di continuità oggetti antichi e rinascimentali, poiché l’uno vive in funzione dell’altro, secondo il gusto rievocativo del mondo classico tipico del Cinquecento. Riuscireste a riconoscere ciò che è antico da ciò che non lo è? Ad esempio, si osservi bene il cratere n. 2 e lo si confronti con l’esemplare n. 27. Il primo è un cratere “all’antica” del XVI secolo, mentre il secondo è un cratere a campana a figure rosse di produzione magnogreca del IV secolo a.C. Nel primo caso non si parla di falso ma di una rielaborazione dell’antico: si tratta dunque di vere opere d’arte, così come i calchi delle teste di togati e imperatori; essi sono gessi d’arte, che hanno un valore diverso rispetto ai gessi tecnici conservati nella gipsoteca, con le loro finalità didattiche e di studio. La collezione era stata formata dall’umanista padovano Marco Mantova Benavides, morto nel 1582 e venne donata all’Università di Padova da Antonio Vallisneri junior nel Settecento.
Testa femminile della collezione Mantova Benavides
Questa sezione approfondisce uno dei reperti della collezione attribuita al famoso scultore Cefisodoto.
Al n. 63 si trova una testa femminile greca attribuita al famoso scultore Cefisodoto, datata agli inizi del IV secolo a.C. e parte della collezione cinquecentesca del padovano Marco Mantova Benavides. Il volto è caratterizzato da un idealismo fisionomico tipico del classicismo maturo. Osservandola bene si può notare che la parte posteriore del capo appare tagliata verticalmente, la testa nasce, infatti, come un altorilievo, probabilmente una stele funeraria. Si consideri che tagliare le parti meglio conservate dei rilievi per venderle separatamente come statue a tuttotondo è una pratica che si diffonde fin dal Rinascimento. Altri esempi sono conservati in questa sala: la testa di Giove n. 68 a cui è stato aggiunto un gancio per poterla appendere e originariamente collocata in un altorilievo oppure l’esemplare n. 1, nella nicchia laterale, appartenente probabilmente ad una stele funeraria attica. Anche il commercio illecito attuale si avvale di questa modalità per immettere più facilmente nel mercato opere trafugate, non solo sculture, e renderle meno riconoscibili. Esemplare il caso della Natività di Caravaggio, grande tela che venne trafugata e tagliata per probabile interesse della Mafia. Questa sorte tocca anche ad opere di minor fama che a volte si riescono a salvare grazie al lavoro del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, fiore all’occhiello delle forze di polizia statali.
Rinascimento: Ammannati e Donatello
Questa sezione è dedicata alla statua dell'Allegoria della Sapienza di Ammannati e ad una riproduzione fedele della testa del Gattamelata di Donatello.
Nell’angolo sulla destra è possibile fare un salto indietro nel tempo fino al Rinascimento italiano, dove possiamo cogliere e intravedere più da vicino lo straordinario talento di due grandi artisti di quell’epoca, Bartolomeo Ammannati e Donatello. L’opera di Ammannati raffigura una statua femminile che rimanda allegoricamente alla personificazione della dea del sapere, Atena o Minerva, riconoscibile attraverso alcuni dettagli quali la corazza e i mascheroni sulla veste. La statuetta è il modello preparatorio per la scultura presente sul lato destro del sarcofago del monumento funebre di Marco Mantova Benavides, posto nella chiesa degli Eremitani a Padova e progettato nel 1545. Sull’altro lato della parete, invece, la seconda figura consiste in una testa in gesso cavo che rappresenta in modo molto accurato i tratti del condottiero Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, ripreso fedelmente dal monumento equestre di Donatello, che si trova nel sagrato della Basilica di Sant’Antonio. Le ipotesi sulla funzione dell’opera confermano che si tratti di un calco di documentazione dal modello preparatorio dell’autore stesso.
La syrinx e la musica
Questa sezione è dedicata alla musica con numerosi strumenti usati nell'epoca greco-romana.
Tra i tesori custoditi nel Museo archeologico dell’Università, un posto privilegiato è sicuramente occupato da un antico strumento musicale: la syrinx o flauto di Pan (da cui nasce il logo stesso del Museo). L’esemplare qui esposto è formato da quattordici canne ed è databile tra il VI e l’VIII secolo d.C.: la provenienza è egiziana e probabilmente questo manufatto è giunto a Padova grazie agli scavi nell’oasi del Fayūm compiuti da Carlo Anti dal 1930 al 1936. La sua eccellente conservazione, pur essendo costituita da materiali estremamente fragili, ne fa un unicum a livello mondiale. Recentemente una squadra di archeologi e ingegneri ha effettuato delle analisi non invasive che hanno portato alla realizzazione di un modello 3D e alla ricostruzione dei suoni di questo strumento; il risultato di questo lavoro è osservabile e ascoltabile presso la postazione multimediale nella prima sala del Museo. La musica nel mondo antico aveva un ruolo importante in ogni aspetto della vita quotidiana. L’archeologia musicale si occupa dello studio dei realia, ovvero dei reperti archeologici di interesse sonoro e musicale, ma anche della rappresentazione di scene musicali nell’iconografia antica. In questo Museo, nelle sue varie sale, sono conservati altri reperti di interesse musicale: quattro tintinnabula (sonagli) di età romana, una statuina di auleta (suonatore di flauto) di produzione tarantina e alcuni reperti ceramici di età greca con raffigurazioni di strumenti musicali.
Egitto e tradizioni antiche: gli ushabti
Questa sezione è dedicata ai numerosi reperti egizi presenti nel museo.
I reperti presenti all’interno del Museo consentono inoltre di viaggiare in territori lontani, come l’Egitto. Le testimonianze qui riportate sono opere di diversi scavi svolti dall’Università di Padova sotto la supervisione dell’archeologo Carlo Anti, il quale diresse la missione dal 1930 al 1936. Tra gli oggetti rinvenuti sono sicuramente di particolare importanza gli ushabti, ovvero delle piccole statuine di uso funerario che, in prospettiva di una vita nell’aldilà, si riteneva lavorassero al posto dei loro proprietari. Questa statuetta funeraria è stata realizzata a stampo e il materiale impiegato è una fayence di colore bluastro, mentre i particolari sono dipinti in nero. L’ushabti n. 31, databile tra il 1070 e il 945 a.C., ritrae un individuo maschile mummiforme, caratterizzato da un volto ovale allungato e da grandi occhi neri, sul quale scendono i capelli sotto forma di parrucca tripartita striata, trattenuta da un nastro sulla fronte. Un aspetto interessante dell’opera risiede in ciò che la statuetta stringe tra le mani: si tratta di due marre con al di sotto due colonne di geroglifici, le quali potevano riportare messaggi del defunto.
Sala Merlin
Questa sezione è dedicata alla Sala Merlin e alla collezione dei coniugi Merlin-Hieke.
In questa sala si trovano i reperti dalla collezione dei coniugi Merlin-Hieke, due illustri accademici del Novecento, specializzati in fisica e petrologia, conoscenze particolarmente importanti anche per gli studi archeologici: la descrizione degli aspetti produttivi della cultura materiale antica è sempre più connessa all’ambito tecnologico scientifico, dove da diversi decenni la ricerca ha fatto passi avanti soprattutto nello studio della ceramica. Momento fondamentale per tutto il vasellame ceramico risiede proprio nella fase di cottura, dove avvengono le principali trasformazioni chimico-fisiche. Per esempio, nella produzione a figure rosse (ne è un esempio il cratere a campana di produzione lucana n. 2), nella prima fase di cottura, detta ossidante, l’alta temperatura favorisce la formazione di ematite che conferisce la colorazione rossa; successivamente, avviene la fase riducente, con un abbassamento della temperatura e la formazione di magnetite, che dà al vaso la colorazione nera. Infine, un’altra fase ossidante fa sì che una parte del vaso torni rossa, mentre l’altra, su cui era stato applicato uno strato aggiuntivo di argilla semi-liquida in fase preparatoria, rimane nera. Sulla ceramica in stile di Gnathia (per esempio i nn. 20 e 21) le decorazioni che si possono osservare non sono state ottenute con il meccanismo appena descritto ma sono state dipinte a cottura terminata.
L’arte delle Situle e i veneti antichi
Questa sezione è dedicata all'arte delle Situle e ai reperti dei veneti antichi.
I reperti che si possono osservare nelle sale 5 e 7 appartengono ai Veneti antichi e provengono dai siti di Padova e Este. A partire dall’800 a.C. i corredi funerari andarono via via diversificandosi, segno di una progressiva stratificazione sociale, ma è dal secolo successivo che è possibile vedere l’ostentazione delle élite principesche. Corredi ricchissimi e con materiali preziosi (si guardi il n. 24 rivestito in foglia d’oro), beni importati e una sovrabbondanza di elementi che rimandano all’ambito, soprattutto ideologico, del banchetto. La più alta espressione artistica è la cosiddetta Arte delle Situle, una raffinata produzione di oggetti in lamina di bronzo: i più diffusi sono vasi di grandi dimensioni, le situle, che venivano utilizzati sia durante i banchetti che in ambito funerario. Al n. 27 potete vedere un calco di quella che ne è considerata il capolavoro, conservata al Museo Nazionale Atestino, la Situla Benvenuti 123: essa presenta un’articolata narrazione di tutti quelli che potremmo definire come gli status symbol del capo guerriero. Questa arte si esprimeva anche in altre tipologie di manufatti, come il fodero di coltello n. 36 conservato nella vicina sala 7. Tutti questi manufatti condividono un linguaggio similare, con scene di caccia, guerra e varie attività tutte riconducibili a forme di ostentazione e legittimazione del potere delle aristocrazie venete prima della conquista da parte di Roma.
La saletta etrusca e la componente multietnica del Veneto antico
Questa sezione è dedicata alla parte della collezione etrusca veneta.
La saletta ospita ceramiche e bronzi di area etrusca. Sulla parete vi sono due urne funerarie etrusche del II-I sec a.C. L’urna con figura femminile sdraiata sul coperchio e scena di commiato sulla fronte, è in tufo e proviene da Volterra. In vetrina sono da notare i vasi in bucchero, ceramica squisitamente etrusca caratterizzata dal colore nero e grigiastro: oltre ai caratteristici calici, sono presenti imitazioni di forme greche come il kyathos e il kantharos, delle coppe con manici rialzati che servivano rispettivamente per attingere e per bere liquidi durante i banchetti. Di notevole interesse sono anche gli elementi in bronzo, tra cui delle parti di candelabro e due specchi con decorazione incisa. Alcuni di questi reperti facevano parte della collezione di Evan Gorga, tenore lirico italiano che tra il XIX e il XX secolo diede forma a Roma a un’imponente collezione di reperti archeologici e strumenti musicali. Altri oggetti provengono da un recupero di oggetti da scavi clandestini nella necropoli di Spina, importante città portuale greco-etrusca affacciata sul mar Adriatico. Importanti centri etruschi sorgevano anche in Veneto, nell’area del Polesine, tra cui Adria e San Basilio. Prima dell’arrivo dei Romani, infatti, il Veneto fu importante crocevia di numerose popolazioni che entrarono reciprocamente in contatto come Etruschi, Greci, Celti e Veneti.
Ponte di San Lorenzo
Questa sezione è dedicata al ponte romano di San Lorenzo, oggi interrato sotto Via Altinate.
Qui d’innanzi è stata riprodotta, attraverso un modellino in gesso pieno, la struttura architettonica del Ponte di San Lorenzo, l’unico interamente conservato dall’epoca romana (40-30 a.C.) e così denominato per la sua ubicazione vicino alla chiesa di San Lorenzo, ora distrutta. Grazie agli scavi compiuti nel 1938 possiamo dire che presenta, nella sua lunghezza di 50 metri, tre arcate ribassate realizzate in pietra di Costozza (anche detta pietra di Vicenza) e in trachite euganea. I parapetti, in un primo momento realizzati in cotto, furono rivestiti in lastre marmoree in età augustea, all’interno di un più ampio progetto di monumentalizzazione dell’intera città. Inoltre, sopra l’arcata mediana del prospetto meridionale sono ancora evidenti i nomi dei magistrati che compirono quest’opera ingegneristica. Negli anni Cinquanta si è proceduti con la tombinatura della struttura residua del ponte per far fronte alle nuove esigenze urbanistiche della città. Questa azione ha alterato per sempre la natura fluviale di Padova, nascondendo uno dei tratti distintivi che la caratterizzava già da prima del X secolo a.C. Tuttavia, oggi, dopo un complesso progetto di ricerca e consolidamento, il ponte torna accessibile al pubblico (grazie alla scalinata presente presso la cosiddetta Tomba di Antenore).
Anfore e valori culturali e legali
Questa sezione si sofferma su temi legati alla legalità e alla conservazione dei beni culturali che vengono ritrovati casualmente.
I valori culturali e gli spunti di riflessioni offerti dal Museo possono essere numerosi. Infatti, al suo interno, sono presenti alcune opere che fanno interrogare le visitatrici e i visitatori su diversi temi, quali la legalità e la conservazione dei beni culturali che vengono ritrovati casualmente. A questo proposito, come esplica il codice dei beni Culturali e del paesaggio (D. Lgs. 42/2004), le ricerche archeologiche sono attribuite esclusivamente al Ministero preposto e i rinvenimenti fortuiti di materiale di presunta natura archeologica devono essere immediatamente denunciati alle autorità competenti. Anche delle anfore, ossia dei contenitori ceramici da trasporto particolarmente diffusi nel mondo romano, possono essere ritrovate nel sottosuolo e facilmente si può supporre di averne così la proprietà: in Museo, per esempio, sono presenti sei anfore di ambito adriatico provenienti dagli scavi eseguiti presso il cortile del Bo e altri quattro esemplari qui depositati dalla Soprintendenza, ossia l’articolazione locale del Ministero della Cultura.
Gipsoteca
Questa ultima sezione si sofferma sulla bellissima gipsoteca del museo.
La Gipsoteca è una sala che ospita la collezione di calchi in gesso di alcune delle più importanti sculture della Grecia e della Roma antica. La maggior parte dei calchi qui presenti è stata acquisita nei primi anni del Novecento da svariati musei, così come da collezioni venete come quella del Museo Archeologico di Venezia, inizialmente ad opera di Gherardo Ghirardini e Giuseppe Pellegrini per poi vedere l’ampliamento di Carlo Anti dal 1922. La disposizione interna era stata ideata da Gio Ponti tra il 1937 e il 1939. Egli aveva progettato un’ampia sala a peristilio con al centro l’impluvio, attorno al quale posizionare tutte le sculture. A causa del danneggiamento del Liviano dovuto all’esplosione di alcune bombe durante la Seconda guerra mondiale, fra il 1961 e il 1966 l’architetto Gilda D’Agaro si occupò del restauro e del completamento del Museo, disponendo diversamente la gipsoteca ed eliminando l’impluvio (pavimentazione risalente al I secolo a.C. e proveniente proprio dagli scavi per la costruzione del Liviano) che tornò in vista solo nel 2004 dopo il nuovo restauro. Osservando i gessi si possono notare tutte le lacune e le giunzioni degli originali, questo perché la gipsoteca nasce innanzitutto con intento didattico, permettendo agli studenti e alle studentesse di osservare e apprendere anche le fasi di lavorazione e i segni che il passare del tempo ha lasciato sui capolavori originali.